La storia del popolo americano è una storia di immigrazione e diversità. Gli Stati Uniti hanno accolto più immigrati di qualsiasi altro Paese – in tutto più di cinquanta milioni – e tuttora accettano circa 700 mila nuove persone ogni anno.
I primi immigranti americani, giunti più di 20 mila anni fa, erano nomadi: cacciatori con le loro famiglie che seguivano le greggi dall’Asia in America, attraverso un lembo della terra conosciuto oggi come Stretto di Bering. Quando partendo dalla Spagna Cristoforo Colombo ha scoperto il nuovo mondo nel 1492, circa un milione e mezzo di nativi americani vivevano in quelli che sono oggi gli Stati Uniti, anche se le valutazioni sul numero di abitanti variano notevolmente. Confondendo il luogo in cui giunse – San Salvador, Bahamas – con le Indie, Colombo chiamò i nativi americani “indiani”.
Durante i 200 anni successivi, gli abitanti di parecchi paesi europei hanno seguito la rotta di Colombo attraverso l’Oceano Atlantico per esplorare l’America e muoversi nell’ambito del commercio e delle colonie. I nativi americani hanno sofferto notevolmente per l’afflusso degli europei. Il passaggio della terra dall’indiano all’europeo – e più successivamente all’americano – è stato compiuto con trattati, guerre e coercizione. Nel diciannovesimo secolo, la soluzione preferita del governo al problema indiano era forzare le tribù ad abitare lotti specifici di territorio chiamati “riserve”. Alcune tribù hanno combattuto per restare sulla terra che avevano sempre usato tradizionalmente. In molti casi il territorio delle riserve era povero, e gli indiani sono dovuti dipendere dall’assistenza del governo. La povertà e la disoccupazione fra i nativi americani esistono ancora oggi.
Le guerre accompagnano le malattie del vecchio mondo per le quali gli indiani non avevano immunità, che vengono così trasmesse alla loro popolazione la quale scende a 350 mila nel 1920. Alcune tribù sono scomparse completamente. Tra queste i Mandans del Nord Dakota, che avevano aiutato Meriwether Lewis e William Clark nell’esplorazione dell’area nordoccidentale dell’America nel periodo 1804-6. Altre tribù hanno perduto le loro lingue e la maggior parte della loro cultura. Ciò nonostante, i nativi americani hanno dimostrato capacità di recupero. Oggi assommano a circa due milioni (lo 0,8 per cento della popolazione totale degli Stati Uniti) e soltanto un terzo circa di essi vive ancora nelle riserve.
Innumerevoli nomi americani derivano dalle parole indiane, compresi quelli degli Stati del Massachusetts, dell’Ohio, del Michigan, del Mississippi, del Missouri e dell’Idaho. Gli indiani hanno insegnato agli europei come coltivare prodotti che sono ora presenti in tutto il mondo: cereali, pomodori, patate, tabacco. Le canoe, i doposci ed i mocassini sono alcune fra molte invenzioni degli indiani.
Gli inglesi erano il gruppo etnico dominante negli insediamenti che si sarebbero trasformati negli Stati Uniti e l’inglese è divenuto quindi la lingua americana prevalente. Ma la gente di altre nazionalità non si sarebbe fatta attendere. Nel 1776 Thomas Paine, un portavoce della causa rivoluzionaria nelle colonie nato in Inghilterra, ha scritto che “l’Europa, e non l’Inghilterra, è il paese che ha dato alla luce l’America”. Queste parole si riferivano a coloro i quali erano venuti non solo dalla Gran Bretagna, ma anche da altri Paesi europei, compresa la Spagna, il Portogallo, la Francia, l’Olanda, la Germania e la Svezia. Tuttavia, nel 1780 tre americani su quattro erano discendenti inglesi o irlandesi.
Fra il 1840 e il 1860, gli Stati Uniti hanno registrato il primo grande flusso di immigranti. In Europa una serie di fattori come la carestia, i raccolti scarsi, la crescita demografica e l’instabilità politica hanno indotto ogni anno cinque milioni di persone a lasciare la loro patria. In Irlanda, una malattia ha compromesso il raccolto di patate causando la morte di 750 persone. Molti dei superstiti sono emigrati. Durante solo un anno, il 1847, il numero di immigranti irlandesi negli Stati Uniti ha raggiunto il numero di 118.120. Oggi circa 39 milioni di americani sono discendenti dagli irlandesi.
Il fallimento della rivoluzione tedesca nel 1848-49 ha condotto molti ad emigrare. Durante la guerra civile americana (1861-65), il governo federale ha stimolato il rafforzamento delle truppe favorendo e promuovendo una emigrazione dall’Europa, particolarmente dagli Stati tedeschi. In cambio del servizio nell’esercito, agli immigranti sono state offerte concessioni di terra. Nel 1865, circa uno su cinque tra i soldati dell’esercito americano era un immigrante. Oggi, il 22 per cento degli americani ha una ascendenza tedesca.
Gli ebrei sono giunti negli Stati Uniti in modo consistente dal 1880 circa, il decennio in cui hanno sofferto le persecuzioni feroci in atto nell’Europa orientale. Nel corso dei 45 anni successivi, due milioni di ebrei si sono stabiliti negli Stati Uniti. La popolazione ebraica americana è attualmente superiore ai 5 milioni.
Durante la fine del diciannovesimo secolo, negli Stati Uniti affluiva così tanta gente che il governo ha attivato un ufficio speciale sull’isola di Ellis, nel porto di New York. Tra il 1892, quando è stato aperto, e il 1954, quando ha cessato le sue funzioni, l’isola di Ellis è stata la porta dell’America per 12 milioni di persone. Ora è conservato come una parte del monumento della statua della libertà.
La statua della libertà, che nel 1886 fu un dono della Francia al popolo americano, si trova su un’isola nel porto di New York, vicino all’isola di Ellis. La statua è divenuta il primo segno visibile per gli immigranti di quella che sarebbe stato il loro nuovo Paese. Queste parole della poetessa Emma Lazarus sono incise su una targa alla base della statua: “Give me your tired, your poor, / Your huddled masses yearning to breathe free, / The wretched refuse of your teeming shore. / Send these, the homeless, tempest-tossed to me, / I lift my lamp beside the golden door!”.
Nel flusso di immigranti che giunse in America del Nord, parte di essi non lo fece spontaneamente. Questi erano africani, 500 mila, introdotti come schiavi fra il 1619 e il 1808, anno in cui importare gli schiavi negli Stati Uniti è diventato illegale. La pratica di possedere gli schiavi, ed i loro discendenti, è continuata tuttavia, specialmente nel sud agrario, dove era necessaria molta mano d’opera per lavorare i campi.
Il processo di abolizione dello schiavismo è cominciato nell’aprile del 1861 con lo scoppio della guerra civile americana fra gli Stati liberi del nord e gli Stati schiavisti del sud, undici dei quali avevano lasciato l’Unione. Il 1° gennaio 1863, a metà della guerra, il presidente Abraham Lincoln ha sottoscritto un decreto di emancipazione, che ha abolito la schiavitù negli Stati che avevano attuato la secessione. Lo schiavismo è stato abolito definitivamente negli Stati Uniti con l’approvazione del tredicesimo emendamento alla Costituzione nel 1865.
Anche dopo la fine dello schiavismo, tuttavia, i neri americani sono stati vessati dalla segregazione e dalla mancanza di accesso alla formazione. Alla ricerca di un riscatto, gli afroamericani hanno formato una vera e propria onda interna di immigrazione, muovendosi dal sud rurale verso il nord urbano. Ma molti neri non riuscirono a trovare lavoro; inoltre, sia per le leggi vigenti che per i costumi consolidati hanno dovuto vivere lontano dai bianchi, in aree periferiche denominate ghetti.
Verso la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 60, gli afroamericani, capeggiati da Martin Luther King, hanno posto in essere boicottaggi, marce ed altre forme della protesta nonviolenta per richiedere la parità di trattamento secondo la legge e la fine del pregiudizio razziale.
Un’altra tappa importante del movimento per i diritti civili è stata il 28 agosto 1963, quando più di 200 persone di tutte le etnie si sono riunite davanti al Lincoln Memorial a Washington, ascoltando le parole di Martin Luther King: “Ho un sogno: che un giorno sulle colline rosse della Georgia i figli degli schiavi ed i figli degli schiavisti possano sedere insieme alla tavola della fratellanza… Ho un sogno: che i miei quattro bambini possano vivere un giorno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per quello che sono”. In seguito, non molto tempo dopo, il Congresso degli Stati Uniti approvò una legge che proibisce la distinzione tra etnie nel voto, nella formazione, nell’occupazione, nelle abitazioni e nelle amministrazioni pubbliche.
Oggi, gli afroamericani costituiscono 12,7 per cento della popolazione totale degli Stati Uniti. Negli ultimi decenni la popolazione di colore ha registrato grandi progressi e la classe media è molto progredita. Nel 1996 il 44 per cento degli impiegati neri svolgevano i cosiddetti “lavori da colletti bianchi”, posizioni direttive, professionali ed amministrative invece che servizi che richiedono lavoro manuale. Lo stesso anno il 23 per cento dei neri fra i 18 e i 24 anni erano iscritti ad università, in confronto al 15 per cento del 1983. Il reddito medio dei neri è più basso di quello dei bianchi, e la disoccupazione dei neri – specialmente dei giovani – rimane superiore a quella dei bianchi. E molti neri americani ancora sono vittime della povertà, in sobborghi urbani contagiati dal crimine della droga.
Negli ultimi anni il dibattito sui diritti civili è mutato. Con le leggi antidiscriminazione e con i neri che fanno sempre più parte, costantemente, della classe media, il quesito è ora se gli effetti del passato richiedano ancora al governo l’assunzione di misure correttive. L’azione può includere l’assunzione di un certo numero di neri (o di membri di altre minoranze) in un posto di lavoro, ammettente un certo numero di allievi di una minoranza in una scuola, o disegnare i contorni di un distretto elettorale congressuale in modo da favorire l’elezione di un rappresentante della minoranza. Il dibattito pubblico sulla necessità, l’efficacia e l’imparzialità di tali programmi è diventato più intenso negli anni 90.
Ma forse il cambiamento più grande negli ultimi decenni è stato negli atteggiamenti dei cittadini bianchi americani. Più di una generazione viene dal periodo del discorso di King “Ho un sogno…”. Gli americani più giovani, in particolare, mostrano un nuovo rispetto per tutte le etnie; e si registra una crescente accettazione dei neri da parte dei bianchi, in tutti i settori e gli ambiti sociali.
Non è raro, camminando per le strade di una città americana, sentire parlare lo spagnolo. Nel 1950 poco meno di 4 milioni di residenti negli Stati Uniti provenivano da paesi di lingua spagnola. Oggi quel numero è circa di 27 milioni. Circa il 50 per cento dei latinoamericani presenti negli Stati Uniti provengono dal Messico. L’altro 50 per cento viene da una varietà di Paesi, come Salvador, Repubblica Domenicana, Colombia. Il 36 per cento dei latinoamericani vivono in California. Diversi altri Stati hanno consistenti popolazioni ispaniche, tra questi Texas, New York, Illinois e Florida, in cui trovano rifugio le centinaia dei migliaia dei cubani che fuggono dal regime di Castro. Ci sono talmente tanti americani cubani a Miami che il “Miami Herald”, il più importante giornale della città, pubblica edizioni separate in inglese e spagnolo.
L’uso così diffuso dello spagnolo nelle città americane ha generato un acceso dibattito. Alcuni anglofoni indicano l’esempio del Canada, in cui l’esistenza di due lingue (inglese e francese) è stata accompagnata da movimenti di tipo secessionista. Per evitare tali sviluppi anche negli Stati Uniti, alcuni cittadini hanno richiesto una legge che dichiari l’inglese lingua americana ufficiale.
Altri considerano una legge di questo tipo inutile e forse anche dannosa, ricordando le differenze tra l’America ed il Canada (nel Canada, per esempio, la maggior parte di chi parla francese vive in una regione specifica, la provincia del Quebec, mentre quelli che parlano lo spagnolo sono diffusi su gran parte degli Stati Uniti) e citando la Svizzera come Paese in cui l’esistenza di più lingue non insidia l’unità nazionale. Il riconoscimento dell’inglese come la lingua ufficiale, sostengono, sminuirebbe chi parla altre lingue e renderebbe più complesse alcune attività della loro vita quotidiana.
La statua della libertà illuminava ancora la strada per i nuovi arrivi negli Stati Uniti quando molti nativi americani hanno cominciato a preoccuparsi, perché il paese a loro parere stava accogliendo troppi immigranti. Alcuni cittadini hanno temuto che la loro cultura venisse minacciata o che avrebbero perso il lavoro a causa dei nuovi venuti che accettavano stipendi più bassi.
Nel 1924 il Congresso ha approvato la legge sull’immigrazione Johnson-Reed. Per la prima volta, gli Stati Uniti hanno fissato dei limiti su quante persone sarebbero state ammesse da ciascun Paese. Il numero di persone autorizzate ad emigrare ogni anno dai vari Paesi è stato calcolato sulla base del numero di cittadini di quel paese già che vive negli Stati Uniti. Di conseguenza, i modelli di immigrazione nel corso dei 40 anni successivi hanno ricalcato la popolazione immigrata, principalmente europei e nordamericani.
Prima del 1924, le leggi degli Stati Uniti hanno esplicitamente escluso gli immigranti asiatici. I cittadini americani occidentali hanno temuto che i cinesi ed altri asiatici togliessero il lavoro agli americani, e si diffuse un pregiudizio razziale contro le popolazioni con caratteristiche asiatiche. La legge che per anni ha impedito l’ingresso agli immigranti cinesi è stata abrogata nel 1943 e la legislazione approvata nel 1952 permette che popolazioni di qualsiasi razza ed etnia diventino cittadini degli Stati Uniti.
Oggi gli americani asiatici sono uno dei gruppi etnici più in crescita nel Paese. Circa 10 milioni di persone con discendenza asiatica vivono negli Stati Uniti. Anche se la maggior parte di essi sono giunti recentemente, costituiscono uno tra i più importanti di tutti i gruppi etnici. Hanno un reddito più alto rispetto altri gruppi etnici e tantissimi loro giovani studiano nelle migliori università americane.
L’anno 1965 ha portato ad un rimescolamento dei vecchi modelli di immigrazione. Gli Stati Uniti hanno cominciato ad assegnare i visti per immigrati a chi ne aveva fatto richiesta per primo; le quote nazionali sono state sostituite con quelle regionali. E la preferenza è stata data ai parenti dei cittadini e degli immigranti degli Stati Uniti con capacità di lavoro difficili da trovare negli Stati Uniti. Nel 1978, il Congresso ha abbandonato le quote regionali ed ha stabilito un tetto per tutto il mondo, che ha aperto ancora di più le porte agli ingressi. Nel 1990, per esempio, i dieci principali Paesi d’origine per gli immigranti erano il Messico (57.000), le Filippine (55.000), il Vietnam (49.000), la Repubblica Domenicana (32.000), la Corea (30.000), la Cina (29.000), l’India (28.000), l’Unione Sovietica (25.000), la Giamaica (19.000) e l’Iran (18.000).
Il flusso costante di questa popolazione immigrante ha avuto un effetto profondo sul carattere americano. Ci vuole certamente coraggio e flessibilità per lasciare il proprio Paese e andare in una nuova nazione. Il popolo americano si è distinto per la capacità di assumersi le responsabilità e provare nuove esperienze, per l’indipendenza e l’ottimismo. Se gli americani di più lunga appartenenza tendono a percepire come scontate la comodità materiale e le libertà politiche, gli immigranti si rendono invece conto di quanto importanti siano questi privilegi.
Gli immigranti, inoltre, arricchiscono le comunità americane portando il contributo delle loro culture. Molti americani neri celebrano sia il Natale che il Kwanzaa, una festa derivata dai rituali africani. Gli ispano-americani celebrano le loro tradizioni con le sfilate ed altri festeggiamenti del “Cinco de Mayo” (il 5 maggio). I ristoranti etnici abbondano in molte città americane. Il presidente John F. Kennedy, egli stesso nipote di immigranti irlandesi, ha riassunto questa miscela del vecchio e del nuovo quando ha denominato l’America “una società degli immigranti, ciascuno di chi aveva cominciato una nuova vita su una base di parità. Questo è il segreto dell’America: una nazione formata da un popolo con una memoria giovane e le tradizioni antiche, e che vuole esplorare le nuove frontiere…”
La prima colonia inglese è stata fondata a Jamestown, Virginia, nel 1607. Alcuni anni più tardi, i Puritans inglesi sono venuti in America per fuggire le persecuzioni religiose a causa della loro opposizione alla chiesa d’Inghilterra. Nel 1620, i Puritans hanno fondato la colonia Plymouth che successivamente divenne il Massachusetts. Plymouth era il secondo insediamento britannico permanente in America del Nord e il primo nella Nuova Inghilterra.
Nella Nuova Inghilterra i Puritans hanno sperato di costruire “una città su una collina”, una comunità ideale. Da allora, gli americani hanno visto il loro paese come un grande esperimento, un modello degno affinché altre nazioni lo seguissero. I Puritans hanno creduto che il governo dovesse fare rispettare la moralità di Dio ed hanno punito rigorosamente gli eretici, gli adulteri, gli etilisti ed i trasgressori del Sabbath. Nonostante la loro propria ispirazione per la libertà religiosa, i Puritans hanno praticato una forma di moralismo intollerante. Nel 1636 un sacerdote inglese chiamato Roger Williams ha lasciato il Massachusetts ed ha fondato la colonia del Rhode Island, basata sui principi della libertà religiosa e sulla separazione tra Stato e chiesa, due ideali che più tardi sono stati adottati nella Costituzione degli Stati Uniti.
I colonizzatori sono giunti da altri paesi europei, quando gli inglesi erano già ben stabiliti in America. Dal 1733 gli insediamenti inglesi costituivano 13 colonie lungo la costa atlantico, dal New Hampshire, nel nord, fino alla Georgia, nel sud. Nell’America del Nord, i francesi hanno controllato il Canada e la Luisiana, la quale includeva l’ampio spartiacque del fiume Mississippi. La Francia e l’Inghilterra hanno combattuto numerose guerre durante il diciottesimo secolo, di cui il Nord America porta le tracce. La conclusione della cosiddetta “guerra dei sette anni”, nel 1763, ha lasciato all’Inghilterra il controllo del Canada e di tutto il Nord America ad est del Mississippi.
Presto l’Inghilterra e le sue colonie vennero in conflitto. Il paese colonizzatore ha imposto nuove tasse, in parte per pagare il costo dei combattimenti per la guerra dei sette anni, e ha chiesto agli americani di alloggiare i soldati britannici nelle loro case. I coloni si sono opposti alle tasse ed hanno resistito alla richiesta di dividere le loro case con i soldati. Insistendo sul fatto che nuove tasse potevano essere stabilite solo dalle loro assemblee, i coloni si sono aggregati dietro lo slogan “no tasse senza rappresentanza”.
Tutte le tasse, tranne una sul the, furono rimosse, ma nel 1773 un gruppo di patroti ha risposto organizzando il partito del the di Boston. Travestiti come indiani, si sono imbarcati sulle navi mercantili britanniche ed hanno scaricato 342 casse di the nel porto di Boston. Ciò ha provocato un severo provvedimento del Parlamento britannico, compresa la chiusura del porto di Boston al trasporto. I responsabili dei coloni confluirono nel primo Congresso nel 1774 per discutere l’opposizione delle colonie alla regola britannica. La guerra è scoppiata il 19 aprile 1775, quando i soldati britannici hanno affrontato i coloni ribelli a Lexington, Massachusetts. Il 4 luglio 1776, il Congresso ha adottato la dichiarazione di indipendenza.
Inizialmente la guerra di rivoluzione non è andata molto bene per gli americani. Con scarsi materiali e poco addestramento, le truppe americane hanno combattuto generalmente bene, ma venivano sopraffatte dai britannici. La svolta nella guerra è venuta nel 1777, quando i soldati americani hanno sconfitto l’esercito britannico a Saratoga, New York. La Francia stava aiutando segretamente gli americani, ma era riluttante ad allearsi apertamente fino a che non si fossero distinti di più nelle battaglie. A seguito della vittoria degli americani a Saratoga, la Francia e l’America hanno firmato i trattati di alleanza e la Francia ha fornito agli americani truppe e navi da guerra.
L’ultima importante battaglia della rivoluzione americana è avvenuta a Yorktown, Virginia, nel 1781. Una forza congiunta di truppe americane e francesi ha circondato l’esercito britannico e lo ha forzate alla resa. Il combattimento è continuato in alcune regioni per ulteriori due anni e la guerra si è conclusa ufficialmente solo con il Trattato di Parigi del 1783, con cui l’Inghilterra ha riconosciuto l’indipendenza americana.
La Costituzione ha alleviato il timore degli americani circa una amministrazione troppo centralista, dividendo il governo in tre rami – legislativo (Congresso), esecutivo (il presidente e gli enti federali) e giudiziario (le corti federali) – ed includendo dieci emendamenti conosciuti come “Bill of Rights” per salvaguardare le diverse libertà. Continue inquietudini circa l’eccesso dei poteri si sono manifestate nelle differenti filosofie politiche di due figure emergenti dal periodo rivoluzionario. George Washington, l’eroe militare della guerra ed il primo presidente degli Stati Uniti, leader di un partito che favorisce un presidente forte e un’amministrazione centrale; Thomas Jefferson, autore principale della dichiarazione di indipendenza, a capo di un partito che preferisce assegnare più potere agli Stati, seguendo la teoria che questi sono più vicini alla popolazione.
Jefferson è diventato il terzo presidente nel 1801. Anche se aveva inteso limitare il potere del presidente, le realtà politiche hanno determinato il contrario. Tra i vari atti del suo mandato, nel 1803 Jefferson ha comprato il territorio della Luisiana dalla Francia, quasi raddoppiando l’estensione degli Stati Uniti. L’acquisto della Luisiana ha aggiunto più di due milioni di chilometri quadrati di territorio ed ha esteso i confini del Paese alle montagne rocciose del Colorado.
Nel primo trimestre del diciannovesimo secolo, le frontiere degli insediamenti si sono mosse ad ovest verso il fiume Mississippi ed oltre. Nel 1828 Andrew Jackson diventa il primo “outsider” eletto presidente: un uomo di uno Stato frontiera, il Tennessee, e nato in una famiglia povera e marginale alle tradizioni culturali della costa atlantico.
Anche se apparentemente l’era di Jackson era animata da ottimismo ed energia, la giovane nazione rimase impigliata in una contraddizione. Le parole squillanti della dichiarazione di indipendenza, “tutti gli uomini sono generati uguali” erano insignificanti per un milione e mezzo di schiavi.
Nel 1820 i politici del sud e del nord hanno dibattuto a lungo la questione se la schiavitù fosse legale o no nei territori occidentali. Il Congresso ha raggiunto un compromesso: la schiavitù era consentita nel nuovo Stato del Missouri e nel territorio dell’Arkansas ma vietata ovunque ad ovest e nord del Missouri. Il risultato della guerra messicana del 1846-48 ha portato altro territorio nelle mani americane, e con esso la possibilità di estendere lo schiavismo. Un altro compromesso, nel 1850, ha consentito che la California come libero Stato, con i cittadini dell’Utah e del New Mexico, potessero decidere se autorizzare lo schiavismo all’interno dei loro confini (non lo autorizzarono).
Ma l’argomento continuava ad essere scottante. Dopo che Abraham Lincoln, un nemico dello schiavismo, è stato eletto presidente nel 1860, undici Stati lasciano l’unione e dichiarano una nazione indipendente, gli Stati Confederati d’America: Carolina del Sud, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Luisiana, Texas, Virginia, Arkansas, Tennessee e Carolina del Nord. La guerra civile americana era cominciata.
L’esercito confederato si comportò bene nella prima parte della guerra ed alcuni dei comandanti, particolarmente il generale Robert E. Lee, erano brillanti strateghi. Ma l’Unione aveva maggiori uomini e dei mezzi superiori. Nell’estate del 1863 Lee si è avvantaggiato marciando con le sue truppe fino a nord della Pennsylvania. Lì ha incontrato l’esercito dell’Unione, a Gettysburg, dove si è combattuta la più grande battaglia svoltasi sul territorio americano. Dopo tre giorni di combattimento disperato, i confederati sono stati sconfitti. Allo stesso tempo, sul fiume Mississippi, il generale Ulysses S. Grant dell’Unione ha conquistato la città di Vicksburg, prendendo il controllo del nord dell’intera valle del Mississippi e tagliando in due la Confederazione.
Due anni dopo, in seguito ad una lunga campagna che coinvolge le forze comandate da Lee e da Grant, i confederati si arrendono. La guerra civile è stata l’episodio più traumatico nella storia americana. Ma ha di fatto risolto due questioni che avevano oppresso gli Americani dal 1776. Ha messo un termine allo schiavismo ed ha deciso che il paese non era un insieme di Stati semi-indipendenti, ma una unità indivisibile.
Abraham Lincoln è stato assassinato nel 1865, privando l’America di un leader qualificato ed unico, dal temperamento idoneo a guarire le ferite lasciate dalla guerra civile. Il suo successore, Andrew Johnson, era del sud ma era rimasto leale all’Unione durante la guerra. I membri nordisti del partito di Johnson, repubblicano, presentarono un ricorso per rimuoverlo dall’ufficio con l’accusa di comportarsi in modo troppo clemente verso gli ex confederati. Il proscioglimento di Johnson fu una vittoria importante per il principio della separazione dei poteri: un presidente non poteva essere rimosso dall’ufficio perché il congresso non è d’accordo con le sue politiche, ma soltanto se ha commesso, come recita la Costituzione, “alto tradimento, corruzione, o altri gravi crimini”.
Alcuni anni dopo la conclusione della guerra civile, gli Stati Uniti si sono trasformati in una delle principali potenze industriali e gli uomini d’affari più abili hanno accumulato grandi fortune. La prima ferrovia transcontinentale è stata completata nel 1869; dal 1900 gli Stati Uniti hanno avuto in miglia più binari che tutta l’Europa. L’industria petrolifera ha prosperato e John D. Rockefeller della Standard Oil Company si è trasformato in uno degli uomini più ricchi d’America. Andrew Carnegie, che ha cominciato come povero immigrante scozzese, ha costruito il grande impero delle acciaierie. I laminatoi tessili si sono moltiplicati nel sud e gli impienti di imballaggio della carne si sono diffusi a Chicago, in Illinois. E’ cresciuta l’industria elettrica mentre gli americani hanno cominciato ad usare una serie di invenzioni: il telefono, la lampadina, il fonografo, il motore a corrente alternata e trasformatore, il cinema. A Chicago, l’architetto Louis Sullivan promuove la costruzione di una struttura con l’acciaio per adattare il contributo distintivo dell’America alla città moderna: nasce il grattacielo.
Ma lo sviluppo economico inarrestabile ha portato con sé dei rischi. Per limitare la concorrenza, le società ferroviarie si sono fuse e hanno fissato prezzi standardizzati. I fondi – combinazioni finanziarie di società – hanno tentato di prendere il controllo di alcune industrie, soprattutto petrolifere. Queste imprese giganti possono produrre più efficientemente le merci e venderle più economicamente, ma possono anche stabilire i prezzi e distruggere i competitori. Per neutralizzare questo fenomeno, ha agito il governo federale. La commissione per commercio tra gli Stati è stata insediata nel 1887 per controllare i prezzi delle ferrovie. La Sherman Antitrust Act nel 1890 ha vietato i fondi, le fusioni e gli accordi “in restrizione del libero commercio”.
Industrializzazione è aumentata e ha portato con sé l’aumento del lavoro organizzato. La federazione americana del lavoro, fondata nel 1886, era una coalizione dei sindacati per i lavoratori qualificati. La fine del diciannovesimo secolo segna un periodo di immigrazione pesante e molti degli operai nelle nuove industrie erano nati all’estero. Per i coltivatori americani i tempi erano duri. I prezzi dei prodotti stavano crollando ed i coltivatori hanno dovuto sopportare i costi di alti tassi di trasporto, delle costose ipoteche, delle imposte elevate e delle tariffe sulle merci di consumatore.
Con l’eccezione dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia nel 1867, il territorio americano era rimasto immutato dal 1848. Nel 1890 ha preso il via un nuovo spirito di espansione. Gli Stati Uniti hanno seguito l’ispirazione delle nazioni europee nel dovere di “civilizzare” i popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Dopo che i giornali americani pubblicarono i crudi resoconti delle atrocità nella colonia spagnola di Cuba, gli Stati Uniti e la Spagna sono entrate in guerra nel 1898. Quando la guerra è finita, gli Stati Uniti avevano conquistato un buon numero di possedimenti spagnoli: Cuba, Filippine, Porto Rico e Guam. Gli Stati Uniti hanno poi acquistato le isole hawaiane.
Tuttavia gli americani, che avevano essi stessi avviato la costituzione dell’impero, non si trovavano a proprio agio amministrandone uno. Nel 1902 le truppe americane hanno lasciato la Cuba, anche se la nuova repubblica cubana rimarrà obbligata ad assegnare basi navali agli Stati Uniti. Le Filippine hanno ottenuto un auto governo limitato nel 1907 e l’indipendenza completa nel 1946. Il Porto Rico si è trasformato in un auto governo legato agli Stati Uniti e le Hawai si sono trasformate in uno Stato nel 1959, come l’Alaska.
Quando è scoppiata la guerra mondiale in Europa, nel 1914, il presidente Woodrow Wilson ha sollecitato una rigorosa politica americana di neutralità. La dichiarazione di guerra tedesca senza restrizioni porta gli Stati Uniti a mutare decisione. Quando il Congresso dichiara guerra alla Germania nel 1917, l’esercito americano era soltanto di 200 mila soldati. Milioni di uomini hanno dovuto essere arruolati, addestrati e spediti attraverso l’Atlantico infestato di sommergibili. Un anno completo, trascorso prima che l’esercito degli Stati Uniti fosse in grado di fornire il proprio contributo significativo.
Prima della resa del 1918, la posizione della Germania era divenuta disperata. Gli eserciti si stavano ritirando di fronte ad una inarrestabile avanzata americana. In ottobre la Germania ha chiesto la pace e l’armistizio è stato dichiarato l’11 novembre. Nel 1919 lo stesso Wilson è andato a Versailles per contribuire a definire il trattato di pace. Anche se è stato festeggiato dalle folle nelle capitali alleate, nel Paese la sua dimensione internazionale era meno popolare. La sua idea di una lega delle nazioni è stata inclusa nel Trattato di Versailles, ma il Senato degli Stati Uniti non ha ratificato il trattato e gli Stati Uniti non hanno partecipato alla lega.
La maggior parte degli americani non si è addolorata per la mancata ratifica del trattato. Hanno piuttosto orientato il loro interesse verso gli stessi Stati Uniti, ritirandosi dagli affari europei. Gli americani stavano diventando ostili agli stranieri. Nel 1919 una serie di bombe di matrice terrorista ha prodotto la cosiddetta “paura rossa” Sotto l’autorità del generale A. Mitchell Palmer, si fece irruzione in numerose riunioni politiche e diverse centinaia di politici radicali stranieri furono deportati, anche se la maggior parte di loro erano innocenti. Nel 1921 due anarchici italo-americani, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, sono stati condannati per omicidio. Gli intellettuali protestarono, ma nel 1927 i due uomini furono messi a morte con la sedia elettrica. Il Congresso ha promulgato i limiti di immigrazione nel 1921 e li ha ristretti ulteriormente nel 1924 e nel 1929. Queste limitazioni hanno favorito gli immigranti dai paesi anglosassoni e nordici.
Gli anni 20 furono un periodo straordinario e confuso, quando l’edonismo coesisteva con il tradizionalismo puritano. Era l’età del proibizionismo: nel 1920 un emendamento costituzionale aveva vietato la vendita delle bevande alcoliche. Tuttavia i bevitori hanno eluso la legge nelle migliaia di bar illegali, ed i malavitosi hanno costruito le loro fortune illecite. Era inoltre gli anni “ruggenti”, l’era del jazz e dei film muti. Il Ku Klux Klan, un’organizzazione razzista nata nel sud dopo la guerra civile, ha attratto nuovi seguaci terrorizzando neri, cattolici, ebrei e immigranti. In quello stesso periodo un cattolico, il governatore di New York Alfred E. Smith, era un candidato democratico per la presidenza.
Per il commercio, gli anni 20 erano anni d’ora. Gli Stati Uniti erano una società di consumatori, con un mercato crescente per radio, elettrodomestici, tessuti sintetici e plastica. Uno degli uomini più ammirati del decennio era Henry Ford, che aveva introdotto la catena di montaggio nelle fabbriche di automobili. Ford poteva pagare alti stipendi ed anche guadagnare enormi profitti con la produzione di massa del modello T, un automobile che milioni di persone potevano permettersi. Per un momento, è parso che gli americani avessero il tocco di re Mida.
Ma i problemi profondi erano solo mascherati dalla prosperità superficiale. Con i profitti che salivano ed i tassi di interesse bassi, l’abbondanza di denaro favoriva gli investimenti. Molti di essi, tuttavia, finivano nella speculazione temeraria del mercato azionario. L’offerta frenetica ha spinto i prezzi molto al di sopra del valore reale delle azioni. Gli investitori compravano gli stock “on margin” prendendo in prestito fino al 90 per cento del prezzo d’acquisto. La bolla è scoppiato nel 1929. Il mercato si è arrestato, innescando una depressione diffusasi in tutto il mondo.
Dal 1932 migliaia di banche americane ed oltre 100 mila imprese erano venute a mancare. La produzione industriale è stata tagliata della metà, gli stipendi era scesi del 60 per cento ed un operaio su quattro era disoccupato. Quell’anno Franklin D. Roosevelt è stato eletto presidente con l’obiettivo “di nuovo patto per il popolo americano”, il “New Deal”.
La sicurezza dimostrata da Roosevelt ha galvanizzato la nazione. “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura in sé” ha detto in occasione del suo insediamento. Ha dato seguito a queste parole con una azione decisiva. In tre mesi – gli storici “cento giorni” – Roosevelt aveva sottoposto al congresso una grande quantità di leggi per rilanciare l’economia. Istituendo nuove agenzie come il Civilian Conservation Corps e la Works Progress Administrationm che hanno generato milioni di impieghi e posti di lavoro, promuovendo la costruzione di strade, ponti, aeroporti, parchi e edifici pubblici. Il Social Security Act regolò un sistema atto a garantire le pensioni e la sicurezza sociale.
Il “New Deal” di Roosevelt non pose fine alla depressione. Anche se l’economia era migliorata, il recupero completo avrebbe dovuto attendere le fasi che precedettero l’ingresso dell’America nella seconda guerra mondiale.
La neutralità era ancora una volta la risposta americana allo scoppio della guerra in Europa, nel 1939. Ma il bombardamento della base navale di Pearl Harbor, nelle Hawai, da parte dei giapponesi, nel dicembre 1941, ha portato gli Stati Uniti ad entrare in guerra, in primo luogo contro il Giappone e quindi contro i suoi alleati, Germania ed Italia.
Gli strateghi militari americani, britannici e sovietici hanno concordato di concentrarsi in primo luogo sulla Germania. Le forze britanniche ed americane sono giunte in Africa del nord nel novembre 1942, sono risalite in Sicilia e attraverso la penisola italiano nel 1943 ed hanno liberato Roma il 4 giugno 1944. Due giorni dopo – il “D-Day” – le forze alleate sono sbarcate in Normandia. Parigi è stata liberata il 24 agosto e a settembre le unità americane avevano attraversato il confine tedesco. I tedeschi si arresero il 5 maggio 1945.
La guerra contro il Giappone terminò rapidamente nell’agosto 1945, quando il presidente Harry Truman ha ordinato l’uso delle bombe atomiche contro le città di Hiroshima e di Nagasaki. Quasi 200 mila civili sono stati uccisi. Anche se il tema può tuttora provocare accese discussioni, l’argomento in favore della scelta delle bombe è stato che le perdite da entrambi le parti sarebbero state più gravi se gli alleati fossero stati costretti ad invadere il Giappone.
Un nuovo consesso internazionale, le Nazioni Unite, era sorto dopo la guerra, e questo volta gli Stati Uniti vi hanno aderito. Presto si sono sviluppate tensioni fra gli Stati Uniti e l’alleato dell’ultima guerra, l’Unione Sovietica. Anche se il dittatore sovietico Stalin aveva promesso elezioni libere in tutte le nazioni liberate in Europa, le forze sovietiche hanno imposto dittatori comunisti in tutta l’Europa Orientale. La Germania si è trasformata in un paese diviso, con una zona occidentale sotto occupazione britannica, francese ed americana e una zona orientale sotto occupazione sovietica. Nella primavera del 1948 i sovietici hanno isolato Berlino Ovest nel tentativo di farne una città sottomessa. Le forze occidentali hanno risposto con un massiccio rifornimento aereo di cibo e di combustibile fino a che i sovietici non hanno tolto il blocco nel maggio 1949. Un mese prima gli Stati Uniti si erano alleati con Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo ed Regno Unito per formare l’Organizzazione di Trattato Atlantico del Nord, la NATO.
Il 25 giugno 1950, armato dai sovietici e con l’approvazione di Stalin, l’esercito della Corea del Nord ha invaso la Corea del Sud. Truman ha assicurato immediatamente un impegno delle Nazioni Unite per difendere la Corea del Sud. La guerra è durato tre anni e ha lasciato la Corea divisa.
Il controllo sovietico dell’Europa orientale, la guerra coreana e lo sviluppo da parte dei sovietici delle bombe all’idrogeno e delle bombe atomiche ha infuso paura negli Americani. Alcuni hanno creduto che la nuova vulnerabilità della nazione fosse conseguenza dell’opera di traditori americani. Il senatore repubblicano Joseph McCarthy asserisce all’inizio degli anni 50 che il Dipartimento di Stato e l’esercito degli Stati Uniti erano in combutta con i comunisti. McCarthy fu smentito e perse di credibilità. Nel frattempo, tuttavia, molte carriere erano state distrutte e il popolo americano aveva perso di vista una virtù cardinale americane: la tolleranza verso il dissenso politico.
Dal 1945 fino al 1970 gli Stati Uniti hanno goduto di un lungo periodo di sviluppo economico, interrotto soltanto da brevi recessioni. Per la prima volta la maggioranza degli americani aveva un elevato standard di vita. Nel 1960, il 55 per cento di tutte le famiglie possedeva la lavatrice, l’automobile era posseduta dal 77 per cento, il 90 per cento aveva il televisore e quasi tutti il frigorifero. Allo stesso tempo, la nazione si stava muovendo per stabilire una giustizia razziale.
Nel 1960 John F. Kennedy viene eletto presidente. Giovane, energico e piacente, ha promesso di “far muovere ancora il Paese” dopo otto anni di presidenza di Dwight D. Eisenhower, anziano generale della seconda guerra mondiale. Nell’ottobre 1962 Kennedy affronta quella che è risultata essere la crisi più drammatica della guerra fredda. L’Unione Sovietica era stata scoperta ad installare missili nucleari a Cuba, abbastanza vicini per raggiungere in pochi minuti le città americane. Kennedy ha imposto un blocco navale dell’isola. Il primo ministro sovietico Nikita Khrushschev ha acconsentito a rimuovere i missili, in cambio della promessa americana di non invadere la Cuba.
Nell’aprile 1961 i sovietici hanno ottenuto una serie di successi nello spazio, inviando il primo uomo in orbita intorno alla terra. Il presidente Kennedy ha risposto con la promessa che gli americani cammineranno sulla luna prima della fine del decennio. Questa promessa è stata mantenuta nel luglio 1969, quando l’astronauta Neil Armstrong è uscito dalla navicella spaziale dell’Apollo 11 sulla superficie della luna.
Kennedy non ha vissuto per vedere tutto questo. Era stato assassinato nel 1963. Non era un presidente universalmente popolare, ma la sua morte fu una scossa terribile per il popolo americano. Il suo successore, Lyndon B. Johnson, è riuscito a promuovere attraverso il Congresso un certo numero di nuove leggi riguardanti i programmi sociali. La guerra di Johnson contro la povertà, “War on Poverty”, ha incluso la formazione prescolare per i bambini poveri, la formazione professionale per chi avesse interrotto la scuola ed il servizio di comunità per i giovani degli “slum”.
Durante i suoi sei anni di presidenza, Johnson è stato coinvolto nella guerra del Vietnam. Nel 1968, 500 mila truppe americane combattevano in quel piccolo Paese, precedentemente poco conosciuto alla maggior parte di loro. Anche se i politici osservavano che la guerra era la componente di uno sforzo necessario per controllare il comunismo in quelle aree, un numero crescere di americani non vedeva un vitale interesse americano in quanto accadeva nel Vietnam. Le dimostrazioni di protesta era scoppiate nelle città universitarie, con violenti scontri fra gli allievi e la polizia. Il sentimento pacifista si è manifestato in una vasta gamma di forme di protesta contro l’ingiustizia e la discriminazione.
Colpito dalla sua crescente impopolarità, Johnson ha deciso non correre per un secondo mandato presidenziale. Richard Nixon è stato eletto presidente nel 1968. Ha perseguito una politica di sostituzione graduale dei soldati americani con quelli vietnamiti. Nel 1973 ha firmato un trattato di pace con il Vietnam del Nord ed ha portato a casa i soldati americani. Nixon ha realizzato altre due innovazioni diplomatiche: il ristabilimento dei rapporti degli Stati Uniti con la Repubblica Popolare Cinese e la negoziazione del primo Trattato di limitazione strategica della difesa con l’Unione Sovietica. Nel 1972 ha vinto facilmente la campagna elettorale per il secondo mandato.
Durante quella campagna presidenziale, tuttavia, cinque uomini erano stati arrestati per essersi introdotti nelle sedi del partito democratico, nell’edificio del Watergate a Washington. I giornalisti che indagarono sull’episodio hanno scoperto che gli scassinatori erano collegati al comitato per rielezione del Nixon. La Casa Bianca ha reso la situazione più difficile tentando di celare qualsiasi collegamento con la violazione dell’edificio. Alla fine, alcune registrazioni del presidente stesso hanno rivelato che era coinvolto nel tentativo di copertura dell’episodio. Nell’estate di 1974 era chiaro che il Congresso stava per metterlo sotto accusa. Il 9 agosto Richard Nixon è diventato l’unico presidente degli Stati Uniti che si sia dimesso dal suo ufficio.
Dopo la seconda guerra mondiale la presidenza si era alternata fra democratici e repubblicani, ma, per la maggior parte, i democratici avevano ottenuto la maggioranza al Congresso, sia nella Camera dei Rappresentanti che al Senato. La serie di 26 anni di maggioranza democratica si è interrotta nel 1980, quando i repubblicani hanno guadagnato la maggioranza al Senato; contestualmente, il repubblicano Ronald Reagan è stato eletto presidente. Questo cambiamento ha contrassegnato l’inizio di una volatilità, che ha caratterizzato i modelli di voto americani da allora a seguire.
Qualunque fosse il loro atteggiamento nei confronti delle politiche del Reagan, la maggior parte degli americani gli hanno attribuito la capacità di aver saputo infondere l’orgoglio del loro paese e il senso di ottimismo circa il futuro. Se si dovesse indicare un tema centrale della sua politica interna, questo era che il governo federale era divenuto troppo grande e le tasse troppo alte.
Malgrado un disavanzo crescente del bilancio federale, nel 1983 l’economia degli Stati Uniti si avviava verso uno dei periodi più lunghi di sviluppo continuo dalla seconda guerra mondiale. La gestione di Reagan ha sofferto una sconfitta nelle elezioni del 1986, quando i democratici hanno riguadagnato il controllo del Senato. La più seria difficoltà fu la rivelazione che gli Stati Uniti avevano venduto segretamente armi all’Iran nel tentativo di ottenere la libertà per gli ostaggi americani il Libano e per finanziare forze antigovernative in Nicaragua, in un momento in cui il Congresso aveva proibito tali iniziative. Malgrado queste rivelazioni, Reagan ha continuato a godere di una forte popolarità durante tutto il suo secondo mandato.
Il suo successore nel 1988, il repubblicano George Bush, ha tratto un giovamento dalla popolarità di Reagan e ha dato continuità a molte delle sue politiche. Quando l’Irak ha invaso il Kuwait nel 1990, Bush ha unito una coalizione multinazionale che ha liberato il Kuwait all’inizio di 1991.
Ma nel 1992 l’elettorato americano era tornato inquieto. Gli elettori eleggono presidente Bill Clinton, un democratico, per cambiare nuovamente soltanto due anni dopo e consegnare ai repubblicani, per la prima volta in 40 anni, la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Nel frattempo, i dibattiti perenni si erano nuovamente riaperti fra i fautori di un governo federale forte ed i sostenitori della decentralizzazione dei poteri, fra i fautori della preghiera nelle scuole pubbliche e la separazione tra Stato e chiesa, fra coloro che propugnano una punizione rapida e sicura dei criminali e coloro che cercano di risolvere le cause di fondo del crimine. Le proteste circa l’influenza del denaro sulle campagne politiche hanno ispirato vari movimenti di contestazione, che hanno condotto allora alla formazione del più forte “partito terzo” da generazioni, guidato da un uomo d’affari del Texas, H. Ross Perot.
Le elezioni del 1996 hanno visto competere Bob Dole (repubblicano), Bill Clinton (democratico), e Ross Perot (Indipendente). Clinton è riuscito a restare avanti nei sondaggi in tutta la campagna elettorale ed è stato rieletto per un secondo mandato presidenziale. Accanto a lui, per la seconda volta, è stato eletto vice presidente Albert Gore Jr.
Non solo ha Clinton ha avviato una serie di riforme interne, come ad esempio The State Children’s Health Insurance Program in modo da permettere a sei milioni di bambini americani l’assistenza sanitaria; ha anche attivamente perseguito azioni per la pace come membro delle Nazioni Unite e della NATO, cercando di fermare la pulizia etnica e genocidio nella ex Jugoslavia e sostenendo la Bosnia dilaniata dalla guerra. Sotto il suo secondo mandato, ha anche lanciato il programma Desert Fox, che ha portato a bombardamenti sull’Iraq, per il mancato rispetto delle regole imposte dalle Nazioni Unite sulle armi chimiche e biologiche. Il presidente Clinton ha anche rafforzato il commercio tra l’America e la Cina, creando la legge Usa-Cina del 2000, che ha permesso il libero scambio tra i due paesi.
Clinton, nel dicembre 1998, è stato il secondo presidente americano ad essere messo sotto accusa. Le imputazioni riguardavano lo scandalo Lewinsky, ma quando venne processato, nel febbraio del 1999, fu dichiarato non colpevole. Clinton, a prescindere dalle polemiche, ha riscontrato i rating più alti di popolarità dai tempi di Dwight D. Eisenhower.
George Bush, repubblicano, ha corso contro Al Gore, democratico, nelle elezioni del 2000 per la presidenza americana. Il risultato di queste elezioni è stato piuttosto controverso nello stato della Florida, perché la differenza di voti era soltanto di 1700 su 6 milioni. Ciò ha obbligato ad un lungo riconteggio manuale di ogni singolo voto, che ha portato alla vittoria finale di Bush.
Il suo primo atto come presidente è stata la creazione del No Child Left Behind Act, che ha elevato gli standard di istruzione in America. Tra i suoi successi presidenziali ci sono il taglio delle tasse per i contribuenti federali, la modernizzazione del Medicare, gli accordi di libero scambio con una dozzina di paesi, la concessione di benefici per i militari ed i veterani. Il suo atto più importante e riconosciuto, tuttavia, è stata la gestione degli attacchi dell’11 settembre 2001 al World Trade Center. Dopo gli attentati Bush costituì infatti il Department of Homeland Security, rafforzando le strutture di intelligence degli Stati Uniti. L’amministrazione del presidente Bush è ricordata a volte negativamente nei suoi rapporti con l’estero, tuttavia egli ha profuso, nel corso della sua presidenza, una sensazione di fondo di patriottismo, perseveranza e speranza.
Nel 2008 hanno avuto luogo delle elezioni presidenziali molto singolari, perché per la prima volta in 56 anni non era candidato un presidente o vicepresidente in carica. Le stesse elezioni primarie sono state molto particolari, con la prima donna candidata alla presidenza, Hillary Clinton, il primo candidato vicepresidente donna, Sarah Palin, e il primo candidato afro-americano alla presidenza, Barack Obama.
Dall’inizio della presidenza Obama si segnalano molti atti politici importanti. Una delle prime decisioni è stata la firma del pacchetto di misure economiche, nel febbraio 2009, seguita poco dopo da una profonda revisione del sistema sanitario americano. Nel settore della politica estera ha avviato il ritiro delle truppe dall’Iraq, ha firmato un trattato sul controllo degli armamenti con la Russia, ed è stato insignito del Nobel per la pace nel 2009. Barack Obama, come afro-americano, è stato l’incarnazione del sogno americano.
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