Lo stato delle cose al 14 gennaio 2018

L’articolata riflessione a mia firma che segue è stata pubblicata sul Corriere della Sera online il 14 gennaio 2018, all’incirca un anno dopo (la scadenza era al successivo 20 gennaio) l’insediamento di Donald Trump. Ritengo opportuno qui riproporla oggi nel mentre, assolutamente rivoluzionato il mondo, ci avviciniamo, a vele spiegate e gravemente percosse da un incontrollabile vento, alla rivincita allora non ipotizzabile tra un successivamente defenestrato e in ogni modo perseguito Trump e un Joe Biden al momento delle note che ripropongo apparentemente tramontato ed invece in grado di tornare prepotentemente nell’agone e prevalere. Ma ecco le righe e le frasi delle quali parlo:

Un anno e mezzo. Una volta eletto per il primo mandato, il presidente degli Stati Uniti ha un anno e mezzo, diciotto mesi, per governare. Per governare senza eccessivi lacci e impedimenti. Senza essere condizionato da scadenze elettorali. Trascorso tale periodo, avvicinandosi le Mid Term Elections, tutto cambia.
I doveri nei confronti dei parlamentari ‘amici’ nonché del partito stesso viepiù prevalgono e vincolano.
Non che nel predetto periodo ‘aureo’ possa il Capo dello Stato USA fare davvero quello che vuole. Contrariamente a quanto correntemente detto e ripetuto, l’inquilino della White House non è assolutamente l’uomo più potente del mondo, non è affatto svincolato da condizionamenti e controlli. Gerald Ford, a tale riguardo, ebbe ad affermare che “l’unica cosa che può decidere da solo un Presidente è quando andare al gabinetto”.
Fatto è che — tutti lo dimenticano quando non lo ignorino — il potere legislativo non gli appartiene essendo riservato al Congresso.
Di più, non è tra le sue competenze neppure qualcosa di analogo ai nostri decreti legislativi potendo egli operare solo in campo esecutivo.
Di più ancora, contro i provvedimenti amministrativi presi dal Presidente è consentito ricorrere in giudizio.
Certo, non è che gli manchi la possibilità di indirizzo politico che esercita attraverso messaggi che invia al Parlamento.
Le conseguenti proposte di legge, opera di rappresentanti o di senatori, per quanto indicate come presidenziali, tali in verità, non soltanto formalmente, non sono. 

Nei primi anni Trenta del Diciannovesimo secolo, in America, un nuovo insorgente partito – il Whig – assai critico nel confronti di Andrew Jackson allora in sella, incluse nel proprio programma la proposta di un Emendamento costituzionale che limitasse ad uno soltanto i possibili mandati del Presidente.
(Per inciso, i due whig effettivamente eletti mantennero l’impegno visto che morirono entrambi in carica. Uno dopo un solo mese: William Harrison. L’altro dopo poco più di un anno: Zachary Taylor). L’intento era quello di rendere più indipendente l’eletto, in grado di agire senza l’assillo conseguente alla necessità di ottenere una seconda vittoria. (All’epoca – e si dovrà attendere il 1951 dopo la quadruplice affermazione di Franklin Delano Roosevelt per la deliberazione in merito – non esisteva, se non per rispettare l’esempio di George Washington che aveva rifiutato un terzo mandato, impedimento alcuno al numero delle candidature e delle possibili conseguenti affermazioni). Considerato che la proposta whig non ebbe udienza e che un nuovo incarico è possibile (e probabile il successo dato che molto difficilmente il Presidente in carica perde lo scranno), il secondo biennio del primo mandato è fortissimamente condizionato dalla futura candidatura che impone comportamenti utili ad ottenere la nomination e la rielezione e non, per così dire, liberi. 

Tutto ciò detto e considerato, guardando all’età al momento dell’insediamento di Donald Trump (è il più anziano presidente eletto ed entrato in carica e solo il Reagan del secondo – ripeto: secondo – quadriennio era più anziano di lui) avevo ipotizzato che il tycoon avrebbe da subito dichiarato l’intenzione di occupare la Casa Bianca per soli quattro anni.
Al fine di avere decisamente più autonomia.
Di operare senza i predetti citati impedimenti.
Di essere appoggiato con maggiore impegno dal partito.
Di permettere ad altri di coltivare relativamente a breve aspirazioni presidenziali.
Di essere meno sotto gli assillanti riflettori della stampa, dei media in generale.
Così non è stato.
Finora, mi dico.
Finora… 

Quali le aspettative il 20 gennaio 2017 al momento del giuramento di Donald Trump nelle mani del presidente della Corte Suprema John Roberts? Storicamente parlando, raramente un presidente americano ha governato come ci si sarebbe aspettati. Ovviamente, in ragione e conseguenza degli accadimenti, spesso se non in ogni circostanza del tutto imprevedibili.
Poi a causa della opposizione trovata in uno o addirittura tutti e due i rami del Congresso.
In qualche caso, per incapacità.
È occorso che candidati di altissimo profilo e pertanto attesi a grandi cose fallissero.
È capitato al contrario che individui mediocri si rivelassero perfetti per il ruolo.
È perfino successo – e non poche volte – che, passato a miglior vita l’eletto, il vice subentrato si appalesasse l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto. Cosa attendersi pertanto da un ‘dark horse’ (un cavallo non favorito e invece vincente), da un ‘maverick’ (nel gergo, come ai tempi del West, un ‘vitello non marchiato’ e pertanto senza padrone, indipendente) quale il Nostro era ed è? Ancora, da un politico senza ideologia, capace di iscriversi per anni nelle liste elettorali come democratico, di flirtare col Reform Party, di entrare e uscire nelle e dalle fila repubblicane?
Che ha scelto la corsa per la nomination nel Gran Old Party perché lo ha ritenuto ‘scalabile’ per le divisioni ideologiche interne ben rappresentate da addirittura diciassette candidati tra loro in lotta?
Da un pretendente alla poltrona presidenziale che, per quanto appartenente alla classe degli abbienti ha saputo proporsi come “il candidato del popolo”, in questo decisamente favorito dalla pessima considerazione da parte di un numero notevole di elettori della rivale Hillary Rodham Clinton, percepita come espressione di un establishment vecchio, inviso e incapace di risolvere i gravi problemi economici di larga parte del Paese, ‘cintura della ruggine’ in primo piano?
Da un candidato che ha saputo evitare l’oramai insopportabile politically correct?
Da un individuo che avrebbe comunque dovuto imparare il mestiere, cosa che – non solo in America – agli imprenditori che entrano nell’agone politico risulta difficile e non poco?
Un bilancio
1) Donald Trump sta operando per quanto possibile secondo il programma proposto agli elettori nel corso della campagna 2016.
Mantiene le promesse (‘America first’ il suo slogan, non dimentichiamolo) o cerca di farlo.
È questo suo comportamento assolutamente estraneo alla politica.
Sappiamo tutti e da sempre (per il vero, molto più in anni recenti) che gli impegni elettorali non si mantengono.
Come si permette?
Come si permette in tale agire di cercare di cancellare ogni traccia della presidenza Obama?
(Per inciso, otto anni di Obama hanno distrutto il partito democratico e sono i dati elettorali a dimostrarlo, senza tema di smentita). 

Nel mentre, neofita, il tycoon va imparando il mestiere (e vedremo se riuscirà), trova tra i suoi colleghi di partito ostacoli non imprevedibili — ricordiamo la forte opposizione interna al GOP alla sua candidatura durante l’intera campagna elettorale — in particolare al Senato laddove la maggioranza repubblicana è risicata (e diminuita dopo la sconfitta in Georgia) e affidata ad un paio o tre di senatori apertamente a lui contrari. 

Di più.
Non indifferente la contrarietà – che si appalesa in specie nelle primarie per la scelta dei candidati repubblicani ai vari incarichi – del suo ex collaboratore e stratega elettorale Steve Bannon, il quale, su posizioni decisamente di destra estrema e con venature razziste, appoggia candidati al Presidente non graditi. Tornando alla Georgia, per quanto i media abbiano gridato nelle recenti suppletive alla “sconfitta del candidato di Trump”, così non è stato visto che il GOP in corsa era un uomo di Bannon, in precedenza, nelle primarie, capace di battere colui che Trump nella circostanza preferiva. 

Non va assolutamente dimenticato, poi, che alla Camera – dove la prevalenza del partito repubblicano è nettissima – un forte gruppo di Rappresentanti GOP è su posizioni radicali spesso condizionanti.
Si guardi a quanto capitato alla proposta di legge firmata dallo speaker Paul Ryan intesa a modificare l’Obamacare.
Non è passata non per la ininfluente opposizione democratica ma perché la citata destra radicale voleva la cancellazione della riforma sanitaria in questione non essendo interessata alla sua semplice modifica. 

Difficile — ricorsi, sentenze di giudici avversi, necessità di arrivare fino alla Corte Suprema — ottenere assensi a non poche delle determinazioni presidenziali in campo amministrativo.
E basti qui ricordare quanto successo alla disposizione concernente l’accesso negli Usa dei cittadini di alcuni Stati considerati ostili. 

Mai cessata per quanto alla fine (come si è verificato in sede elettorale l’8 novembre 2016) poco influente in concreto l’opposizione praticamente unanime dei media americani che Trump tratta comunque a pesci in faccia. 

Criticatissime le posizioni in politica estera e ben prima della decisione di spostare l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.
Gli Stati Uniti di Trump — avverso a dir poco già in campagna con la Nato, l’Onu le altre organizzazioni internazionali, i vari Trattati fiore all’occhiello della precedente amministrazione e oggi conseguentemente in azione – questione Corea del Nord a parte, sono isolati.
Isolati e minacciosi (in campo economico, quanto a finanziamenti e aiuti) come si vede in particolare dopo il voto larghissimamente contrario dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a proposito della citata questione israeliana. 

Come tutti (e di più) i politici attualmente in vista — mediocri o peggio — in Occidente, Trump dà peso eccessivo ai sondaggi, ai continui cambiamenti di umore che il web mette in mostra, comunica assolutamente troppo…
I ‘grandi’ (rarissimi) politici hanno una visione e nell’operare per realizzarla non si fanno certamente condizionare dalle mutevoli voglie di un mutevole elettorato, voglie rappresentate — quando mai? — da rilevazioni sondaggistiche guidate e spessissimo falsificate. (Fidarsi oggi dei sondaggi — non solo in campo elettorale — è follia visti i continui fallimenti, in primis proprio quanto all’esito della campagna 2016 per White House). 
Indubbi e importanti i successi in campo economico, sia quanto alla internazionalità (in particolare con Cina e Giappone), sia quanto all’interno (la volutissima riforma economica è legge!).
Tutto ciò detto (e quanto altro sarebbe necessario dire…), sgombrato il campo dall’ipotesi impeachment, impraticabile, quali le previsioni?
Sempre, invero, ma nel caso Trump a maggiore ragione, l’incertezza quanto al futuro regna sovrana.
Amante dei riflettori, imprevedibile, il tycoon punta alla Storia con la esse maiuscola.
Ancora ricordando che i suoi poteri sono comunque limitati, ancora auspicando che l’esercizio del ruolo lo illumini, auspicando che sia fortunato (Napoleone cercava generali fortunati…) e che il destino non gli (ci) proponga drammaticità, riservandoci di vedere quale esito avranno le Mid Term Elections in programma il prossimo 6 novembre, incrociamo le dita!

26 giugno 2024