Bloomberg aveva ragione?

Ben prima dell’inizio della campagna elettorale interna al partito democratico per la nomination, parlando di una sua possibile discesa in campo, Michael Bloomberg asseriva che nel confronto finale testa a testa con Donald Trump avrebbe senza dubbio avuto la meglio ma che per lui sarebbe invece stato difficile, con un partito su posizioni radicali quale si andava dimostrando quello dell’Asino, prevalere sui contendenti e ottenere l’investitura nella Convention fissata a luglio.
È sostanzialmente stata la certamente non buona prestazione dell’ex Vice di Obama Joe Biden – nei primi appuntamenti già in crisi – che avrebbe dovuto rappresentare il centro moderato del partito a dargli uno spinta nel senso contrario.
Che Bloomberg sia nel confronto con gli altri candidati un pesce fuor d’acqua si è visto nel primo dibattito (a Las Vegas, il 19 febbraio) al quale è stato ammesso.
Attaccato come c’era da aspettarsi da Sanders che lo vede (ricambiato) come il fumo negli occhi, ha subito accuse relative praticamente ad ogni suo precedente atteggiamento elettorale e politico, nonché la pressante richiesta da parte della Senatrice Warren di permettere alle donne il cui silenzio, relativamente a suoi comportamenti verbali sessisti avrebbe comprato, di parlare.
Bloomberg in questi frangenti si è trovato a mal partito mentre quando si è passati a trattare di azioni politiche si è immediatamente ripreso.
Tanta sopportazione esprimeva (gli occhi al cielo) ascoltando argomentazioni che personalmente riteneva inutili quanta capacità rappresentava andando sul concreto.
Sondaggi a parte, non sapremo invero fino al Super Tuesday del 3 marzo se gli elettori intendono premiarlo.
Come ben si sa, come non ha partecipato in Iowa e nel New Hampshire, non è in gioco nel Nevada sabato e in South Carolina il 29.
Aspettiamo.