Cosa conta il voto popolare a livello nazionale
Ben sappiamo – è capitato più volte e l’ultima nel 2016 – che si può diventare Presidente degli Stati Uniti d’America prendendo meno voti popolari a livello nazionale.
Conta, difatti, il consenso ottenuto Stato per Stato.
A seguire una più specifica rappresentazione del fenomeno.
1948, è il 2 novembre.
Il candidato ‘Dixiecrat’ James Strom Thurmond conquista il 2,4 per cento dei voti popolari su base nazionale e 39 Grandi Elettori.
1992, è il 3 novembre.
Il candidato indipendente Ross Perot conquista il 18,9 per cento dei voti popolari su base nazionale e nessun Grande Elettore.
Thurmond concentra i suffragi (meno di 1.200.000) in una ben precisa, a lui vicina, parte del Paese e prevale in 4 Stati (Alabama, Louisiana, Mississippi e South Carolina).
Perot disperde le preferenze (arriva secondo solo nel Maine e nello Utah) e i suoi quasi 19.750.000 voti non lo portano da nessuna parte.
Si aggiunga che, in estrema ipotesi, in una situazione simile ma non uguale a quella del 1948 (se 3 essendo i candidati capaci di conquistare Grandi Elettori nessuno tra loro ne ottenesse quanti necessari per arrivare alla maggioranza assoluta ed essere pertanto eletto Presidente dal Collegio degli stessi), il terzo classificato, per quanto esiguo sia il numero dei suoi delegati, sarebbe ammesso al voto della Camera dei Rappresentanti alla quale spetterebbe nella circostanza la nomina (secondo il XII Emendamento datato 1804).
Cosa assolutamente impossibile invece in una contingenza quale quella del 1992 dato che il terzo candidato, pur tanto maggiormente seguito a livello nazionale, non ha conquistato Grandi Elettori lasciando quindi certamente ad uno dei rivali la predetta e prescritta maggioranza.
Per la storia, effettivamente, nel 1824 la nomina del Presidente fu demandata alla Camera, nessuno dei pretendenti a White House avendo raggiunto il totale di 131 Grandi Elettori allora richiesti.