La possibilità di dare prevalenza al voto popolare nazionale
Occorre a questo punto – confermate nel precedente intervento le inderogabili disposizioni che fanno sì che negli Stati Uniti al fine (anche) di arrivare alla nomina del Presidente non conti il suffragio popolare nazionale ma quello dei singoli Stati – intrattenersi più compiutamente sulla possibilità che in tema intervengano variazioni.
Ricordato che tutte le volte nelle quali il voto popolare, dal primo confronto diretto datato 1856, è stato superato da quello degli Stati a mezzo del Collegio degli Elettori (con l’iniziale maiuscola) è accaduto a danno dei democratici (1876, 1888, 2000 e 2016), si può comprendere come tale richiesta venga portata avanti (in particolare poi dal momento in cui la popolatissima California si esprime massicciamente per gli Asinelli) da vari analisti e istituti, nonché dai media, a questi vicini.
Si può certamente comprendere poi a livello europeo e italiano, poiché il Federalismo (salvo l’isola elvetica, chissà perché non mi riesce di considerare uguali Germania e Belgio) è ignoto, avversato, incompreso.
Orbene, per dare il via alla riflessione, in prima battuta, ogni mutamento deve (deve) avvenire tramite Emendamento costituzionale, essendo il sistema in adozione conseguente a disposizioni risalenti alla Carta e alla sua 12ª modifica datata 1804, con l’aggiunta di coerenti leggi.
Orbene ancora – esiste una diversa procedura mai usata e altrettanto complessa – perché un Emendamento (di tal fatta, poi) venga approvato deve (deve) essere proposto, approvato dai due rami del Congresso con la maggioranza dei due terzi dei partecipi alla votazione, e ratificato dalla bellezza dei tre quinti degli Stati.
E qui casca l’Asino (con riferimento sia alla frase fatta che al ciuco simbolo dei dem).
Tre quinti vuol dire trentotto ed è davvero impossibile ipotizzare che ci siano così tanti Stati intenzionati a rinunciare al loro più importante diritto, quello di potere essere indipendenti e decisivi nella scelta e nomina dell’inquilino di White House.
Perché mai dovrebbero farlo?
La seconda osservazione (in non necessaria aggiunta risultando definitivo il precedente ragionamento) è che se davvero si arrivasse alla modifica il comportamento dei partiti e dell’elettorato muterebbero conseguentemente.
Oggidì e da sempre, in campagna elettorale, i movimenti politici, seguendo il ‘momento storico’ (che pure avevano condizionato e condizionano), la geopolitica, gli infiniti e continui mutamenti sociali, quelli migratori, le sempiterne e spesso dimenticate più o meno gravi crisi economiche, non facevano e non fanno campagna ovunque nel Paese.
Per esempio, dal non immediato dopo Guerra di Secessione fino alla prima campagna di Dwight Eisenhower (1952), il Grand Old Party neppure provava ad opporsi nel Sud democratico segregazionista.
Prevaleva – sia pure declinando – nel Nord industrializzato e socialmente vivo nonché aperto ai diritti civili, laddove erano di contro i dem a soffrire.
Esistono Stati (come già detto all’odierno la California – più il New York – per i rep e molti tra quanti di quella parte del Paese che mi piace chiamare ‘sorvolati’ perché conterebbero solo i due citati al punto che praticamente nessuno li considera atterrandovi, per i dem) nei quali è del tutto inutile fare propaganda (a cosa può servire ai GOP perdere tempo e denaro per ridurre il distacco a Sacramento?).
Non così ovviamente – non dovrebbe essere evidente? – se il voto decisivo fosse quello popolare nazionale.
Allora, anche recuperare qualche centinaio o più di migliaia di suffragi colaggiù sarebbe importante.
Ancora, gli stessi elettori si comporterebbero diversamente.
Andando ai seggi o comunque votando anche dove minoranza non al fine di ‘catturare’ i membri del Collegio dello Stato (a quel punto eliminati?) ma per congiungersi con gli altri – del Wyoming o dell’Alaska – a formare invece maggioranza appunto nazionale.
Tutto ciò detto, i sostenitori di cotale mutamento si mettano l’animo in pace: non succederà!