Origini, fasti e decadenza delle convention
E’ in previsione delle presidenziali del 1832, che, nel settembre dell’anno precedente, il da poco costituito (a seguito di alcune losche vicende che avevano visto, fra l’altro, il rapimento e l’uccisione di un ‘massone pentito’, tale William Morgan, e in ragione del successivo insabbiamento da parte delle autorità, accusate di essere succubi della massoneria, dell’inchiesta conseguente) partito Antimassonico decise di procedere alla scelta del proprio candidato a White House in una riunione nazionale, tenutasi a Baltimora, alla quale venne dato il nome di ‘convention’.
Per la storia, in quella prima occasione, la scelta cadde su William Wirt, del Maryland.
Imitando l’operato degli antimassonici, gli altri partiti, a loro volta chiamati a congresso, optarono per il presidente uscente Andrew Jackson e per l’ex segretario di Stato Henry Clay.
Jackson vinse alla grande, Clay conquistò sei Stati e Wirt riuscì a catturarne uno.
Dopo una lunga serie di convention abbastanza facili e prive di contrasti particolarmente gravi, eccoci al decisivo 1860 (la sconfitta dei democratici aprì le porte di White House al repubblicano Lincoln con tutto quel che ne segue).
Riunitisi in aprile a Charleston, in Sud Carolina, i delegati del partito dell’asino si trovarono su due differenti fronti in particolare nei riguardi dello schiavismo ragione per la quale decisero di rincontrarsi più avanti, in giugno, a Baltimora.
Colà, il movimento, lungi dal trovare il bandolo della matassa, si divise e i delegati degli Stati del Sud abbandonarono i lavori.
La nomination andò così al senatore Stephen Douglas mentre i dissidenti, organizzatisi, proposero quale loro candidato il vice presidente in carica John Breckinridge.
Sempre ed anche in quella occasione, quando un partito si spacca e presenta più pretendenti alla presidenza, a prevalere è il partito rivale.
Particolarmente contrastata anche la convenzione democratica del 1872 per quanto fosse incentrata sulla scelta di un candidato (alla fine, i delegati ripiegarono sul direttore del ‘New York Tribune’ Horace Greeley) le cui probabilità di successo erano praticamente inesistenti considerando che il pur mediocre repubblicano Grant, allora in carica, era da ritenersi per molte ragioni imbattibile.
Ed eccoci a un braccio di ferro in casa repubblicana: siamo nel 1880 e il partito dell’elefante è diviso in due fazioni.
Parte dei delegati si pronuncia per un terzo mandato di Grant.
Parte opposta si divide al proprio interno fra James Blaine e John Sherman.
La faccenda si risolve solo quando appunto Blaine e Sherman si mettono d’accordo e ritirando le proprie candidature fanno convergere i voti che controllano su James Garfield garantendo, d’altra parte, la vice presidenza all’esponente della avversa congrega Chester Arthur.
Contrasti anche nel successivo 1884 in casa repubblicana (Blaine, prescelto, era assai discutibile sul piano morale) al punto che una fazione annunciò durante la convention l’intenzione di disertare il partito la qual cosa favorì la successiva vittoria del democratico Grover Cleveland.
Ancora nel 1896 forti contrasti in campo repubblicano provocarono l’uscita di un’ala minoritaria di quel partito comunque destinato in quel frangente a vincere.
Nel frattempo, sempre nel 1896, il movimento populista – che aveva acquistato negli ultimi anni un notevole rilievo – nella propria convention prese una decisione unica nella storia USA: scelse William Jennings Bryan che era già stato nominato dai democratici.
Al fine di differenziarsi, propose invece un diverso candidato alla vice presidenza.
Bryan, quindi, nell’occasione, era al primo posto in due ticket mentre al suo fianco correvano due distinte persone.
Fondamentale la convenzione repubblicana del 1912 (in giugno a Chicago) perché fu la prima ad essere tenuta dopo le primarie.
E’, infatti, in quell’anno che il GOP, in tredici Stati, decide di chiedere al popolo quale debba essere il candidato alla Casa Bianca.
Teodoro Roosevelt, tornato dopo quattro anni in pista, stravince le novelle consultazioni ottenendo ben duecentosettantotto delegati contro i quarantotto del presidente in carica William Taft e i trentasei del riformatore Robert La Follette.
A Chicago però, disattendendo il volere degli elettori, la nomination andò a Taft e il partito si trovò ad affrontare una scissione.
I fuorusciti, in agosto ma ancora nella capitale dell’Illinois, fondarono il partito progressista e nominarono Theodore Roosevelt.
A novembre, conseguentemente, pur ottenendo, sommando i suffragi, le due anime repubblicane la maggioranza dei voti, si affermò il democratico Woodrow Wilson.
1924: immigrazione, ku klux klan e proibizionismo con annessi problemi dividono profondamente i democratici che non riescono per ben sedici giorni (la convention è bloccata per questo lunghissimo periodo) a scegliere tra l’ex ministro del tesoro William McAdoo e il governatore dello Stato del New York il cattolico Alfred Smith.
Fatto è che le regole del tempo in quel partito prevedono sia necessaria per ottenere la nomination una maggioranza dei due terzi dei delegati.
Infine, McAdoo e Smith decidono di ritirarsi e al centotreesimo scrutinio passa John Davis che sarà strabattuto da Calvin Coolidge.
Per quanto dipoi amatissimo dagli americani e destinato a vincere addirittura quattro volte, Franklin Delano Roosevelt nel 1932 la sua nomination dovette decisamente sudarsela barattando alla fine e sull’orlo della sconfitta il determinante appoggio del presidente della Camera, il texano John Garner – fino a quel momento, acerrimo rivale – con la candidatura per il medesimo alla vicepresidenza.
Ancora nel 1948 e nuovamente tra i democratici una scissione nel bel mezzo di una convention: escono i cosiddetti ‘dixiecrats’, sudisti arrabbiati con Truman che si riuniscono quindi a Birmingham, in Alabama, fondano il partito democratico per i diritti dei singoli Stati e designano candidato il governatore del Sud Carolina, J. Strom Thurmond.
Per di più, sempre dal corpo democratico, era uscita a sinistra una frangia liberal capeggiata dall’ex vice presidente Henry Wallace.
Ciò malgrado, contro ogni pronostico e smentendo i sondaggi, il presidente Truman vinse agevolmente.
Nel 1952, l’eroe di guerra Dwight ‘Ike’ Eisenhower accetta la proposta dei repubblicani e si presenta alla convention del partito certo di ottenere una facile vittoria.
Non sarà così e solo per un soffio riuscirà a superare Robert Taft, il senatore figlio dell’ex presidente, e i suoi molti sostenitori destrorsi e neoisolazionisti.
Ed eccoci al 1964, al momento in cui il governatore repubblicano progressista dello Stato di New York Nelson Rockfeller viene sconfitto brutalmente dall’ultraconservatore senatore dell’Arizona Barry Goldwater.
L’ultima, ad oggi, convention davvero controversa è quella democratica del 1968.
(Quella, repubblicana, del 1976 che vide Gerald Ford prevalere sul futuro presidente Ronald Reagan che si rifarà quattro anni dopo, al confronto, è una passeggiata).
A Chicago, nel mentre all’esterno la polizia carica e disperde a bastonate migliaia di dimostranti pacifisti (la guerra del Vietnam feriva tutti e tutto), il partito si trova al termine delle primarie senza una precisa indicazione.
Nessuno ha conquistato abbastanza delegati e pertanto, alla fine, la nomination va al vice presidente in carica Hubert Humphrey che neppure aveva partecipato alle predette primarie.
Da allora – complice il fatto che i grandi elettori da conquistare sono solo il cinquanta per cento più uno e non i due terzi – una sequela di convenzioni già decise in partenza, nelle quali il risultato è scontato perché uno dei candidati ha raccolto intorno a sé il numero di delegati sufficiente per ottenere la nomina al primo scrutinio.
Così, per venire alle ultime convention, nel 2008 sia tra i repubblicani che tra i democratici – malgrado la forte resistenza della comunque sconfitta Hillary Rodham Clinton – così in casa repubblicana (dall’altra parte, ovviamente, Obama correva da solo) nel 2012.