Perché?
L’hanno rifatto. Alla fine, ben poco comprensibilmente. Mi riferisco alle fanfare scatenate da larghissima parte della stampa internazionale – l’italiana, entusiasta a dir poco – questa volta immancabilmente a sostegno della notizia della travolgente vittoria di Kamala Harris nel confronto televisivo. Nel 2016 e nel 2004, limitandoci a tempi a noi vicini, delle brillanti e superiori – ci sarebbe mancato – prestazioni dibattimentali di Hillary Clinton e prima di John Kerry, entrambi dipoi sconfitti da quei cattivoni dei rispettivi avversari repubblicani che come si sono permessi e permettono?
Non che la Vicepresidente di poco riconosciute capacità improvvisamente, dopo il tocco di bacchetta magica opera di un Joe Biden che, dipinto fino a quel momento dagli amici come, mi si perdoni, rintronato, avrebbe invece, dichiarandola erede quasi fosse un monarca, messo a segno un gesto illuminato e illuminante, sia avviata sulla stessa strada, ma insomma.
“Ma insomma”, ripeto – dopo avere consapevolmente nell’immediato in diverse occasioni invano scritto e detto che per capire come fosse andato il vis a vis di Atlanta restasse indispensabile aspettare visto che le opinioni subito sbandierate degli ‘esperti’ (e se queste persone che hanno smesso di ragionare servissero a qualcosa?) e i falsificati sondaggi proposti non avevano reale significato – alla luce della notizia che nella media generale delle trentaquattro più importanti rilevazioni compiute a livello nazionale a due settimane dall’evento, a bocce correttamente ferme, il rimbalzo (bounce) positivo è risultato inferiore all’uno per cento, storicamente a paragone il più basso degli ultimi decenni.
Dopo di che, per quanto realmente debba dire che in questo istante (mancano oltre quaranta giorni al voto e, nel mentre, il mondo intero può cambiare) Donald Trump sia, ippicamente parlando, avanti di una corta incollatura, per carità, la Signora può perfino (malgrado cioè gli entusiastici appoggi americani – gli altri a questo fine non contando – degli inviati e dei corrispondenti del New York Times, del Washington Post e compagnia cantante che invisi come sono all’elettore comune ottengono dì alienarglielo) farcela.
Tutto ciò detto, nutrito interiormente di saggia incertezza anche solo quanto a dimani, mi sento soltanto di prevedere, addirittura garantire, che, anche il 5 novembre prossimo dovesse perfino stravincere l’odiatissimo tycoon, nel 2028, ad una sola voce, chiunque sia il candidato democratico, finito il o i dibattito/i, al novanta per cento della propria consistenza, la stampa mondiale suonerà le campane e darà il via alle predette fanfare indicandolo trionfatore.
E, forse ancora più incredibilmente (non è vero, la gente non ha memoria alcuna), essendo presa assolutamente, ennesimamente (un neologismo), sul serio dal pubblico. Evviva!
25 settembre 2024