Iowa 2024: riflessioni 

A bocce relativamente ferme, trascorse alcune ore e considerate le prime reazioni dei protagonisti, semplificando – dopo avere ricordato
che mai nessuno in Iowa aveva in precedenza vinto con più di diciotto punti percentuali di vantaggio (e Trump praticamente con trenta),
che mai nessuno ancora si era aggiudicato novantotto contee su novantanove (Johnson County e’ andata 1.271 voti a 1.270 ad Haley)
e che a seguito del ritiro di Ramaswamy (che da adesso appoggia il tycoon) in corsa restano solo DeSantis e la predetta ex Ambasciatrice –
e comunque aspettando almeno il New Hampshire laddove Haley dovrebbe (per quanto appesantita dal risultato meno buono del previsto nello Stato con capitale Des Moines) ottenere un esito migliore,
si può semplicemente concludere affermando che il già Capo dello Stato repubblicano (cosa in verità mai messa in dubbio) ha la strada spianata verso la Nomination.
Come in altre occasioni (l’ultima quando il contendente strabattuto Biden venne chiamato da Obama a far parte del ticket), è possibile, per quanto non probabile, che uno dei due sconfitti sia reclutato quale candidato alla Vicepresidenza.
Nell’ipotesi, più facilmente Haley che per quanto possibile ‘copre’ Trump verso il centro più moderato.

16 gennaio 2024

Iowa 2024, Republican Caucus, 15 January

Ecco in qual modo l’Associated Press relaziona in merito al Caucus inaugurale della corsa alla investitura repubblicana.
Come previsto, Donald Trump si impone nettamente ottenendo oltre il cinquanta per cento dei consensi espressi.
Come non previsto (i sondaggi più accreditati davano Nikki Haley avanti tre punti percentuali su Ron DeSantis) il Governatore della Florida arriva secondo con all’incirca il ventuno per cento dei voti precedendo l’ex Ambasciatrice all’ONU pressappoco di due.
Quarto – e dopo il voto pronto a rinunciare alla prosecuzione della campagna – Vivek Ramaswamy, tra il sette e l’otto.
A memoria – salvo i casi nei quali il Presidente in carica si ripropone praticamente senza concorrenti – mai in precedenza un aspirante alla Nomination di uno dei due partiti egemoni aveva sconfitto i rivali localmente come in questa circostanza Trump.
Il quale, mentre nel 2016 (il 2020 non può essere considerato proprio perché correva pressoché da solo e si veda l’appendice) aveva conquistato trentasette delle novantanove Contee dell’Iowa oggi le avrebbe fatte sue tutte.
Avremo la possibilità di ragionare più compiutamente anche sentendo le argomentazioni del vincitore e dei due sconfitti.

Nel 2020, in Iowa, in opposizione al Presidente uscente e candidato Donald Trump, per la Nomination repubblicana si propose l’ex Governatore del Massachusetts Bill Weld.
Risultato?
Tutti i delegati dello Stato con capitale Des Moines a Trump meno uno.
Un tale che resterà il solo ‘weldiano’ fino al termine della corsa.
La solitudine dell’Elettore!

16 gennaio 2024

Può un repubblicano vincere contro Trump?

Nikki Haley piuttosto che Ron DeSantis.
Pare – ma scrivo mentre in Iowa si vota e potrebbe non essere così – che l’alternativa a Donald Trump per la Nomination GOP sia necessariamente l’ex Governatrice e Ambasciatrice.
Una alternativa, come dire, al momento possibile ma improbabile.
Supponiamo però che alla fine sia proprio Haley a farcela all’interno del partito.
Cosa accadrebbe?
Un Trump escluso dal confronto finale come si comporterebbe?
Cosa farebbero i suoi più accesi sostenitori?
Perché certamente un differente candidato non avrebbe chance alcuna di battere l’avversario democratico, chiunque sia, avendo contro il tycoon e i trumpiani.
Si intravede in un simile caso una spaccatura tale in conseguenza della quale il partito repubblicano si divida come accaduto nel 1912 allorquando Theodore Roosevelt sbattendo la porta fece affondare l’uscente William Taft consentendo al democratico Woodrow Wilson di prevalere?
Meno drammaticamente, i duri e puri ‘MAGA’ (Make America Great Again, l’efficace slogan di ‘the Donald’) diserteranno le urne preferendo l’astensione all’appoggio della candidata che ha sconfitto il loro idolo?
Molti come si vede gli interrogativi che se Trump vince facile oggi e il 23 nel New Hampshire non avranno più ragione d’essere posti.

15 gennaio 2024

Cassius Clay, Martin Luther e il Vietnam come ‘la guerra dei bianchi’

Certo, la Guerra del Vietnam fu indubbiamente tra le più contestate negli USA: un incredibile crescendo di malcontento, protesta e appunto contestazione e basti qui ricordare che se nelle prime settimane del 1965, quando ebbero inizio i bombardamenti sul Vietnam del Nord, nel parco municipale di Boston i dimostranti contro erano all’incirca un centinaio, il 15 ottobre 1969, nel medesimo luogo gli indignati contestatori del conflitto non erano meno di centomila.
Peraltro, tra i primi a dichiararsi assolutamente contrari indubbiamente i neri raccolti nel movimento per i diritti civili.

Un gruppo di uomini di colore del Mississippi, a metà 1965, distribuì un volantino che diceva:
“Nessun nero del Mississippi dovrebbe combattere in Vietnam… finché nel Mississippi tutta la popolazione nera non sarà libera”.
E fu solo l’inizio.
Seguirono discorsi di esponenti neri contro la leva, denunce delle predette associazioni per i diritti civili della politica johnsoniana in Indocina come di “una politica di aggressione in violazione del diritto internazionale”.

Ancora, e correva il 1967, eclatante per la notorietà del contestatore, il rifiuto (che gli sarebbe costato il titolo e provocò il momentaneo ritiro da parte degli organismi che governavano all’epoca il mondo delle dodici corde della sua licenza di boxeur) del nero campione del mondo di pugilato dei pesi massimi Cassius Clay/Mohammad Ali di prestare servizio in quella che definì ‘la guerra dei bianchi’.

Ecco, in proposito, quanto ebbe a dire, parlando alla Riverside Church di New York, il reverendo Martin Luther King:
“Questa follia deve cessare.
Dobbiamo fermarci adesso.
Parlo come figlio di Dio e fratello dei poveri che soffrono in Vietnam.
Parlo per coloro la cui terra viene devastata, le cui case vengono distrutte, la cui cultura viene sconvolta.
Parlo per i poveri d’America che stanno pagando un duplice prezzo: le loro speranze infrante in patria, la morte e la corruzione in Vietnam.
Parlo da cittadino del mondo, per il mondo che guarda atterrito il cammino che abbiamo intrapreso.
Parlo da americano ai leader della mia nazione.
Questa guerra è stata una nostra iniziativa, e nostra deve essere l’iniziativa di fermarla”.

Magnifico discorso, in specie ove si pensi a come i predicatori neri (e King era tra i più carismatici) parlavano ai fedeli, all’atmosfera che sapevano creare, alla partecipazione che suscitavano!

Nota bene.

Martin Luther King, politico e prima ancora pastore protestante, leader del Movimento per i Diritti Civili degli Afroamericani, pacifista e sulla scia gandhiana, non violento, nato ad Atlanta il 15 gennaio del 1929, studioso di alto profitto in campo teologico, fu estremamente importante e un vero riferimento altresì culturale e d’azione per i neri (certamente, non solo) impegnati nelle proteste e nei boicottaggi in particolare negli Stati del Sud in mano democratica ancora segregazionista.
Fu – tra le mille iniziative – guida della celebre ‘Marcia per il lavoro e la libertà su Washington’ del 28 agosto 1963.
Per quanto più volte in contatto con il Presidente Kennedy, non riscontrando concretezza nei suoi atti, lo accusò apertamente di essere in buona sostanza un parolaio.
Figura di grande rilievo internazionale, come si è sopra visto, fu contro la Guerra del Vietnam.
Verrà a morte per mano assassina a Menphis, il 4 aprile del 1968.
Due mesi e poco più dopo, a Los Angeles – aveva appena vinto le Primarie della California per la scelta dei Grandi Elettori che lo avrebbero dovuto accompagnare alla Convention nella quale contava di ottenere la Nomination democratica – sarà ucciso anche Bob Kennedy.

15 gennaio 2024

Nel New Hampshire i sondaggi dicono dei progressi di Nikki Haley

Certo, dobbiamo vedere i risultati del Caucus odierno in Iowa ma le informazioni che vengono dalle rilevazioni sondaggistiche effettuate in data 14 nel successivo (si voterà il 23) New Hampshire sono davvero interessanti e fanno pensare a un diverso possibile scenario.
Secondo FiveThirtyEight, infatti, nello Stato con capitale Concord Donald Trump è rilevato ‘solo’ al 41.4 per cento – in leggera difficoltà – mentre Nikki Haley si colloca al 30 con un notevolissimo aumento praticamente nelle ultime ore.
(Ai minimi termini, il 6 addirittura, Ron DeSantis).
Dato che anche qui ‘tout se tient’, probabilmente le notizie che arrivano dal New Hampshire daranno morale agli elettori di Nikki già in Iowa.
Nelle Primarie, si sa, è indispensabile creare un’onda che mano mano si ingrossi e cavalcarla fino in fondo.
Insomma, il Caucus del Martin Luther King Day (era nato quel veramente grande trascinatore proprio il 15 gennaio) ha molta importanza.
Può ‘quietare’ Haley se non supera neppure il 20 per cento.
Può metterla invece in moto se nelle urne si dimostra attrattiva oltre le aspettative.
Fra poco, sia pure di certo non definitivamente (ci mancherebbe), sapremo di più.

15 gennaio 2024

La Corte Suprema degli Stati Uniti d’America

A seguito delle sentenze locali di differenti Organi giudiziari del Colorado e del Maine che – a loro modo di vedere correttamente – applicano al tycoon un comma dell’Emendamento del 1868 che in materia faceva ovviamente riferimento a personaggi implicati nella Secessione appena sedata escludendolo dalla campagna delle Primarie nei due Stati (altri avendo deciso differentemente ed essendo comunque possibile che di contro altri ancora prendano la stessa strada), Donald Trump ha fatto ricorso alla corte Suprema Federale che ha deliberato di discutere del grave caso il prossimo 8 febbraio.
E’ quindi opportuno – peraltro, non certamente solo per la situazione descritta – esaminare l’importante, decisivo consesso.
Ecco.

Semplificando a volte brutalmente, data l’impossibilità di allargare come sarebbe dovuto in questo ambito il complesso, assai articolato, tema:
La Corte Suprema degli USA è l’unico organo giudiziario espressamente previsto dalla Costituzione americana che, accanto ad esso, elenca “quelle Corti minori che il Congresso potrà, di tempo in tempo, creare e costituire” (ed, ovviamente, se del caso, sopprimere, in mancanza di una espressa garanzia costituzionale, concessa, quindi, solo alla Corte stessa).
Risulta, quindi, del tutto evidente che nella mente dei partecipanti alla Convenzione dalla quale trasse origine la Costituzione degli Stati Uniti la Corte Suprema doveva essere il più alto Tribunale Federale cui era affidato il compito prevalente di una uniforme applicazione del diritto in tutti gli USA ed una funzione equilibratrice, di garanzia del corretto andamento del meccanismo federale.
Ma c’è di più, poiché un’ulteriore prerogativa spettante alla stessa Corte consiste nella cosiddetta ‘judicial review’ e cioè nel controllo di costituzionalità delle leggi, siano esse statali o federali.
Cosicché la Corte Suprema finisce con il cumulare, grosso modo, quelli che sono in Italia i compiti della Corte di Cassazione e di quella Costituzionale.
E’ questa seconda la funzione privilegiata sulla quale si è costituito il notevole potere dell’organo che è considerato l’autentico interprete della Costituzione scritta il che ha consentito, attraverso una giurisprudenza evolutiva o addirittura creatrice (contro tale ultima ‘evoluzione’ propria dei ‘liberal’ progressisti si battono gli ‘originalisti’ conservatori che intendono attenersi strettamente al disposto), ad un testo approvato oltre due secoli orsono e modificato in poche occasioni attraverso gli Emendamenti di continuare ad essere all’altezza delle necessità.
Stando al dettato della Carta, i giudici appartenenti alla Corte Suprema devono essere nominati (come gli alti Funzionari statali, gli Ambasciatori e gli altri Giudici Federali) dal Presidente, con il consenso del Senato (che ratifica o meno l’operato del Capo dello Stato), e, a garanzia della loro indipendenza, la stessa legge istitutiva prevede che il nominato goda della ‘inamovibilità’ (è, pertanto, in carica a vita) e della ‘intangibilità del trattamento economico’ (l’indennizzo, secondo per entità solo a quello dell’inquilino della Executive Mansion, non può essere diminuito per nessuna ragione né tassato).
Pertanto, il giudice federale, al riparo da ogni possibile influenza così del Parlamento che del Presidente, una volta nominato è libero di esprimere le proprie indipendenti valutazioni.
Attualmente, il numero dei giudici è fissato in nove compreso il Presidente (‘Chief’).

P.S. 1
L’importanza della Corte Suprema nella vita politico istituzionale degli Stati Uniti non fu storicamente immediatamente colta dai suoi membri e, tantomeno, dai suoi primi Presidenti.
E’ solo con la nomina di John Marshall, poi in carica dal 1801 al 1835, che ci si rese conto dell’importanza della sua azione.
Marshall, insediato dallo sconfitto John Adams secondo leggenda la mezzanotte dell’ultimo giorno di permanenza in carica quale Presidente (in verità, leggermente prima), fu l’esponente del movimento federalista che più incise sulla politica americana proprio perché per trentacinque anni a capo della Corte Suprema, alla quale seppe dare consistenza e rilievo al di là dell’immaginabile.

P.S. 2
Spesso e particolarmente negli anni nei quali governava Franklin Delano Roosevelt, il potere politico ha cercato di prevaricare la Corte Suprema, mai, peraltro, riuscendovi.
Il predetto F.D. Roosevelt, contrariato da una serie di decisioni avverse, confermato per un secondo mandato nel 1936, considerata l’età dei sei membri a lui contrari in carica, propose che da quel momento il Presidente USA fosse autorizzato a nominare un giudice in soprannumero per ogni componente della Corte che avesse superato i settant’anni senza lasciare volontariamente l’incarico.
L’idea fu ritirata, tanto vibranti furono in proposito le rimostranze anche popolari.

P.S. 3
Memorabili i molti contrasti tra un Capo dello Stato designante un giudice e un Senato a lui contrapposto o, anche se recante una maggioranza a lui favorevole, ostile in una minoranza combattiva.
Gli ultimi in ordine di tempo quelli vissuti tra Donald Trump nel suo unico mandato e i Laticlavi democratici che, prima di comunque soccombere, si sono opposti in ogni possibile modo alla nomina prima di Neil Gorsuch, poi di Neil Kavanaugh e infine di Amy Coney Barrett.
Nomina che dovrebbe influire assolutamente sul futuro americano (lo ha già fatto con la Sentenza datata 24 giugno 2022 che ha cassato la Roe vs Wade in tema di aborto) essendo la teorica conseguente maggioranza ‘di destra’ forte e formata da persone abbastanza giovani.

A chiudere.
In non poche occasioni, ho sostenuto che il potere di ratifica che vanta il Senato in tema appunto di conferma dei giudici della Corte è una delle ragioni che porta nel giorno delle cosiddette votazioni presidenziali l’elettorato americano – non solamente tra le classi più alte ed avvertite essendo le questioni inerenti da molti conosciute e discusse – ad esprimersi per l’uno o per l’altro candidato.
Guardando difatti alle possibili prossime (giudici in procinto di dimettersi o molto in là con gli anni, ammalati…) nomine e naturalmente conoscendo le idee dei due partiti in merito e dei contendenti all’incarico, si può mettere sulla scheda una preferenza volta a far sì che gli eventuali nominati siano liberal o conservatori.
Tornando al citato Donald Trump, certamente nel 2016 una componente non trascurabile del suo elettorato lo preferì per fare in modo che (sapendo che con buone probabilità i giudici da nominare sarebbero stati più di uno) nella futura composizione della Corte i conservatori fossero in numero maggiore.
Cosa che non si è ripetuta nel 2020 avendo, come sopra detto, l’ultimo Presidente repubblicano fatto il pieno.

Non è corretto terminare qui il dire sul tema senza ricordare che in non poche circostanze giudici ritenuti conservatori si sono poi dimostrati in concreto o assolutamente liberal o tali in singole decisioni.
Molto più difficile il comportamento conservatore da parte dei più vicini alle posizioni cosiddette progressiste.

15 gennaio 2024

Donald Trump cerca la terza Nomination alla Executive Mansion

Candidato del Grand Old Party – altro nome del Repubblicano – nel 2016 (quando ha vinto) e nel 2020 (allorché perse), come tutti sanno, Donald Trump nel corrente 2024 cerca la terza investitura e ad oggi è indicato dai sondaggi in netto vantaggio sui contendenti, Nikki Haley e Ron DeSantis tra gli altri in prima fila. Quali i candidati alla dimora presidenziale, vincenti o perdenti, tralasciando ovviamente i partiti minori (per dire, il socialista Eugene Debs è stato ‘nominato’ dal suo movimento politico cinque volte!), che l’hanno preceduto su questa strada?
In ordine di tempo, a dare il via alla serie è Thomas Jefferson (democratico/repubblicano), sconfitto nel 1796 da John Adams (federalista, teoricamente anch’egli pluricandidato ma con un meccanismo elettorale che non prevedeva il ticket e comunque considerato in corsa per la carica vicaria, ottenuta, nel 1788/89 e nel 1792) e vittorioso nel 1800 e 1804.
Il secondo è Andrew Jackson (sostanzialmente il primo democratico), battuto rocambolescamente – nei ballottaggi alla Camera, caso unico – da John Quincy Adams (ultimo tra i democratici-repubblicani a governare) nel 1824, capace di defenestrare il rivale nel 1828 e di confermarsi quattro anni dopo.
Terzo, Martin Van Buren (democratico), in carica dopo le elezioni del 1836, sconfitto nel 1840 dal whig William Harrison e di nuovo nel 1848 (qui avendo cambiato partito passando al Free Soil) in modo definitivo dato che non prevalse in nessuno Stato.
Quarto, Henry Clay – trattando del quale ebbi a scrivere “come sa perdere Clay, nessuno” in verità forzando i fatti come vedremo presto – capace di correre ufficialmente, con partiti diversi, in tre occasioni (1824, 1832 e 1844) uscendo ogni volta con le ossa rotte.
Il prototipo al quale si ispira Trump è però Grover Cleveland (democratico), il solo Capo dello Stato USA che abbia vinto, perso e rivinto (1884, 1888 e1892) – con un intervallo, quindi, come accadrebbe se ce la facesse, tanto da essere indicato ufficialmente quale ventiduesimo e ventiquattresimo inquilino della Mansion.
Ed eccoci al democratico William Jennings Bryan, incaricato nel 1896, nel 1900 e nel 1908 e costantemente ko (alla stregua del citato Clay).
Eccezionale – come ognun sa – poi, il successo elettorale muovendo verso White House di Franklin Delano Roosevelt (democratico e incappato anni prima in una sconfitta quando correva per la Vicepresidenza con James Cox), unico a prevalere quattro volte: 1932, 1936, 1940 e 1944.
(Va qui notato che ventinove degli allora quarantotto membri dell’Unione lo hanno costantemente votato e che tra i restanti solo Maine e Vermont non lo fecero mai).
Nessuno si era in precedenza riproposto dopo avere governato per due mandati (per il vero Ulysses Grant, nell’intento, era incappato nel “no” repubblicano in sede di Convention nel 1880) e nessuno potrà più farlo essendo stato ratificato nel 1951 il Ventiduesimo Emendamento che limita comunque a due le elezioni.
Ottavo nell’ordine, Richard Nixon, repubblicano.
Sconfitto da John Kennedy nel 1960 quando era in uscita come Vice di Dwight Eisenhower, risorto incredibilmente nel 1968 e confermato quattro anni dopo, prima di essere costretto a dimettersi ad agosto 1974.
Tornando al, per le sue aspirazioni, felice precedente di Cleveland, non risulta che la First Lady Melania, lasciando la Casa Bianca nel gennaio del 1921, abbia pronunciato le profetiche parole della consorte di Grover, Frances Folsom, che disse al maggiordomo: “Non sposti nulla perché torneremo!”

14 gennaio 2024

L’Iowa, elettoralmente parlando quanto al voto novembrino

Ammesso a far parte dell’Unione quale ventinovesimo membro nel 1846, l’Iowa, la cui capitale è Des Moines, alle cosiddette Presidenziali, adottando il ‘winner takes all method’ che attribuisce tutti i Delegati/Elettori ai quali ha diritto uno Stato al candidato che vince quanto a suffragi popolari, si è espresso quattordici volte a favore del candidato democratico e trenta a sostegno del repubblicano.
Ove si guardi alle votazioni del dopo Seconda Guerra Mondiale, a partire dal 1948, i repubblicani hanno sconfitto nove volte i rivali perdendo in sei circostanze.
Undici le occasioni nelle quali il vincitore in loco ha perso a livello federale.

Di seguito, i risultati:
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Repubblicano (Willkie)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)

14 gennaio 2024

“Full Grassley”

Il termine “full Grassley” indica una strategia della campagna presidenziale – risulta che Ron DeSantis abbia compiuto l’impresa – in cui un candidato visita tutte le novantanove contee dello stato dell’Iowa.
Questa strategia prende il nome dal senatore Chuck Grassley (repubblicano entrato in carica il 3 gennaio 1981, diciassette giorni prima di Ronald Reagan, per dare l’idea, e oggi novantenne) noto per il suo impegno a visitare ciascuna contea dell’Iowa ogni anno.

Come ha scritto Grassley sul Des Moines Register:
“Le mie novantanove riunioni di contea sono un modo per ritenermi responsabile e rimanere in contatto con il mio popolo.
Come senatore degli Stati Uniti per l’Iowa, rappresento la metà del governo.
Gli Iowans sono l’altra metà.
Nel corso di oltre quattro decenni ascoltando persone che hanno partecipato a circa quattromila riunioni di contea – raggiungo molte contee più di una volta all’anno – posso garantire che gli Iowans sono bene informati”.

13 gennaio 2024

4 luglio 2026, duecentocinquanta anni dopo la Dichiarazione di Indipendenza

Mille le ragioni di interesse delle elezioni USA che, per quanto riguarda l’iter che conduce alla scelta dei candidati, prendono il via dopodomani lunedì 15 gennaio con il Caucus dell’Iowa e si concluderanno nei due decisivi ‘momenti’ previsti come – “il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre”, e pertanto il giorno 5 di questo 2024 , con la nomina Stato per Stato degli Elettori (iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni) e – “il primo lunedì dopo il secondo mercoledì del successivo dicembre”, e quindi quest’anno il giorno 16 dell’ultimo mese, con l’effettiva elezione del Presidente ad opera dei predetti Elettori riuniti nel Collegio che compongono.

Tra le quali mille ragioni, non poco motivante per i candidati il fatto che il Capo dello Stato infine entrato in carica il 20 gennaio 2025 eserciterà dalla Casa Bianca il potere esecutivo in occasione del duecentocinquantesimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza che cade il 4 luglio 2026.

Qui di seguito, con una premessa, succintamente, cenni riguardanti i non sempre lieti precedenti anniversari dal cinquantesimo in poi.

Lo sanno anche i sassi (non però che si tratti di una data in qualche modo ‘scelta’ dato che l’approvazione del Documento era avvenuta in una seduta del precedente 2 luglio 1776 e che buona parte dei Founding Fathers in effetti lo firmarono ad agosto): il giorno fatidico della Dichiarazione di Indipendenza (‘Independence Day’, come definito dal 1791) cade il 4 del settimo mese dell’anno.Nel giorno del Cinquantenario (4 luglio 1826) due gravi lutti colpirono la Nazione.
Morirono difatti a poche ore di distanza l’uno dall’altro due decisivi Padri della Patria, il secondo e il terzo Presidente, John Adams e Thomas Jefferson.
In carica a Washington in quel momento John Quincy Adams.

Nel giorno del Centenario (4 luglio 1876) era in corso a Philadelphia la Centennial International Exhibition inaugurata per la bisogna il 10 maggio precedente alla presenza di Ulysses Grant e dell’Imperatore del Brasile dom Pedro Il di Braganza.

In occasione del Centocinquantesimo (4 luglio 1926), fu inaugurato, sempre a Philadelphia, il ‘Sesquicentennial Stadium’, un importante impianto sportivo a forma di ferro di cavallo con tappeto erboso che arrivava ad ospitare centoduemila spettatori.
Molte le manifestazioni per l’occasione organizzate.
Alla Casa Bianca in quel mentre Calvin Coolidge.

I festeggiamenti per il Bicentenario (caduto il 4 luglio 1976 e celebrato da Gerald Ford) ebbero inizio addirittura il primo giorno di aprile dell’anno precedente.
Moltissimi gli eventi in programma e realizzati.
Presente assai significativamente – dato che è dalla Gran Bretagna che si dichiarava nel 1776 l’Indipendenza – la Regina Elisabetta II.

Non che i Presidenti citati quali celebranti i singoli eventi – vantano ovviamente una propria specificità, comunque – siano da considerare tra i grandi, ma insomma…

13 gennaio 2024