Presidenziali del 2012

Si vota il 6 novembre.
Alle urne il cinquantaquattro e nove degli aventi diritto al voto.
Il Presidente uscente Barack Obama, democratico, vince in ventisei Stati più il Distretto di Columbia e conquista trecentotrentadue Elettori (in notevole calo rispetto ai dati del 2008).
Lo sfidante GOP Mitt Romney prevale in ventiquattro Stati e ottiene duecentosei voti al Collegio.

Facilissima la volata interna agli Asinelli del Presidente verso la conferma che ottiene all’unanimità
Con lui, di nuovo, Joe Biden.
Tra i repubblicani, nuovamente in lizza l’ex Governatore del Massachusetts Mitt Romney che alla fine supera i rivali Rick Santorum, già Senatore della Pennsylvania, Ron Paul, Rappresentante del Texas, e Newt Gingrich, georgiano ed ex Speaker alla Camera.

Annotazioni
Siamo sicuri che nel secondo quadriennio (quello che attende Obama) i Presidenti facciano meglio?
Da sempre, si sostiene che una volta rieletto il capo dello Stato USA, svincolato dal problema e dai vincoli operativi relativi alla rielezione, possa dare di più.
Ora, guardando ai precedenti, verrebbe voglia di dire il contrario visto che è praticamente sempre all’inizio che il Presidente americano gode di maggiore autorevolezza, non è stanco ed è in grado di agire.
Si pensi, per esempio e per restare a tempi a noi vicini, al pessimo, ingrato, pieno di trappole e problemi secondo mandato di George Walker Bush e a quello non certo esaltante del pur fortunato Bill Clinton.
In lontanissimi anni, nella prima metà dell’Ottocento, il partito whig sostenne inutilmente la proposta di ridurre ad un solo quadriennio l’impegno dell’eletto.
Come ho già scritto, i due whig effettivamente arrivati a White House, William Harrison e Zachary Taylor, mantennero fede all’impegno preso morendo nel corso appunto del primo mandato”.

16 aprile 2024

New Hampshire: storia elettorale in occasione delle presidenziali

1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Federalista (J. Adams)
1800: Federalista (J. Adams)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Federalista (Pinckney)
1812: Federalista (D. Clinton)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (J. Q. Adams)
1828: National Republican (J. Q. Adams)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Democratico (Van Buren)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Repubblicano (Hoover)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)

16 aprile 2024

Ritratti di Signore americane: Jeannette Pickering Rankin

Nota come Jeannette Rankin, nata a Missoula nel 1880, è stata la prima donna eletta alla Camera dei Rappresentanti USA.
Era il 1916 (entrò in carica ovviamente l’anno successivo) e fu il Montana ad inviarla a Washington.
Particolare la sua avventura perché sedette nel consesso per via della legge elettorale del Stato di provenienza in quanto quella federale non lo consentiva appunto a livello nazionale (lo farà solo nel 1920).
Rankin fu altresì la sola congressista a votare contro l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917.
Straordinario il fatto che dopo l’attacco di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, tornata alla Camera, non sostenne neppure la dichiarazione di guerra al Giappone!

16 aprile 2024

Gli sconfitti: Robert La Follette

In un’epoca (i primi decenni del Novecento) nella quale il progressismo sembrava dominare la vita politica e sociale americana tanto che numerosi esponenti di quella corrente – repubblicani o democratici che fossero, per quanto in numero inferiore questi ultimi – arrivarono ad occupare importantissimi governatorati (Hiram W. Johnson in California, Jeff Davis in Arkansas, James K. Vardaman in Mississippi, Hoke Smith in Georgia, Charles Evans Hughes nel New York e, naturalmente, Woodrow Wilson in New Jersey), ecco emergere la forte figura di Robert ‘Fighting Bob’ M. La Follette.
Uomo integerrimo e fiero, mai incline al compromesso, La Follette portò a termine un vasto programma di riforme nei sei anni nei quali fu Governatore del Wisconsin (1901/1906).
Affrancatosi dai vincoli della locale assemblea legislativa fortemente conservatrice, diede un efficace regolamento alle ferrovie, stabilì eque imposte sui redditi e a proposito di eredità, limitò fortemente la dirompente corruzione, regolò banche e compagnie di assicurazione, diminuì le ore di lavoro delle donne e dei bambini, adottò il sistema meritocratico nella nomina dei funzionari, impose le Primarie per la scelta dei candidati ad incarichi politici.
Elemento portante della sua rivoluzione (come altrimenti definirla?), la cosiddetta ‘Wisconsin Idea’ e cioè la strettissima collaborazione tra governo locale ed università i cui docenti fornivano pareri e consigli e facevano parte delle diverse commissioni create per studiare e risolvere i più differenti problemi amministrativi e sociali.
Theodore Roosevelt, guardando al Wisconsin di La Follette, parlò di “laboratorio della democrazia”.
Successivamente Senatore, il Nostro fu sconfitto alla Convention repubblicana in vista delle elezioni del 1912, pur avendo ottenuto nelle Primarie, adottate per la prima volta a livello nazionale, un discreto numero di delegati.
Contrario all’intervento americano nella Prima Guerra Mondiale, su questo fu acerrimo rivale di Wilson che, per il resto, aveva appoggiato.
Ancora una volta fuori dal coro, nel 1924 si oppose a Calvin Coolidge (che cercava una riconferma a White House) e al candidato democratico John W. Davis mettendosi alla testa di un nuovo movimento (non volle definirlo ‘partito’) progressista.
Il suo rivoluzionario programma prevedeva la lotta ai monopoli, la nazionalizzazione delle ferrovie e delle centrali elettriche, la diminuzione del dazi doganali, il sostegno federale all’agricoltura, l’elezione popolare dei giudici.
L’esito fu lusinghiero visto che, con soli duecentomila dollari di finanziamento per l’intera campagna e malgrado l’improvvisazione, perdendo dall’Incumbent, prevalse su Davis in undici Stati compresa la California e conquistò tredici delegati al Collegio nazionale.
Fu il suo canto del cigno.

16 aprile 2024

Appoggiare Trump senza se e senza ma

Il governatore del New Hampshire Chris Sununu è stato intervistato su ABC News da George Stephanopoulos:
Alla domanda:
“Per riassumere.
Sostiene Trump come presidente anche se è stato condannato nel caso dei documenti riservati.
Lo sostiene anche se crede che abbia contribuito a un’insurrezione.
Lo sostiene anche se crede che menta sulle ultime elezioni.
Lo sostiene anche se è stato condannato per il caso Manhattan.
Voglio solo sapere se la risposta è sì.
Giusto?”
ha così lapidariamente risposto:
“Sì.
Io e il cinquantuno per cento dell’America!”

15 aprile 2024

Il Vice di Trump? Dev’essere capace nella raccolta di fondi elettorali?

Ricordato che è tranquillamente capitato che un’accoppiata che appariva senza senso (guardando alle ‘regole’ sotto esposte) abbia vinto, molte le ragioni che possono portare il candidato alla Executive Mansion a scegliere il Running Mate che comporrà il ticket elettorale.
Per dire, la necessità di cercare un completamento della presa politica contando su un coéquipier d’un differente versante.
Semplificando.
A destra (a sinistra) il designato?
Su posizioni non si dice opposte ma diverse il futuro Vice.
La questione, diciamo così, geopolitica?
Ad un Nordatlantico (tra i democratici essere di quelle parti identifica eccome) deve essere affiancato almeno un midwestern, ad esempio.
Importante garantirsi (chissà? si spera) uno Stato di grande peso quanto a componenti poi partecipi del Collegio Elettorale (la California, quindi il Texas, per cominciare).
E così via articolando alla ricerca della migliore teoricamente possibile soluzione che alla fine si può rivelare – “Dove abbiamo sbagliato?” – negativa.
Oggi, considerata la acclarata notevolissima raccolta di finanziamenti del partito democratico, pare che giustamente Donald Trump e il suo entourage stiano esaminando candidati la cui prima caratteristica sia d’essere capaci di portare – non si dice personalmente anche se… – sponsorizzazioni le più cospicue possibili!

15 aprile 2024

Sondaggio New York Times/Siena: il mandato di Trump positivo

Mentre i ricordi dell’amministrazione tumultuosa e caotica di Trump non sono significativamente sbiaditi, molti elettori ora hanno un quadro più roseo della sua gestione dell’economia, dell’immigrazione e del mantenimento della legge e dell’ordine.
In vista delle elezioni del 2020, solo il trentanove per cento degli elettori ha affermato che il Paese stava meglio dopo l’insediamento di Trump.
Ora, guardando indietro, quasi la metà dice che ha migliorato le cose durante il suo periodo come presidente.
“I risultati del sondaggio sottolineano il modo in cui un segmento di elettori ha cambiato idea sull’era Trump, ricordando quegli anni come un periodo di prosperità economica e di forte sicurezza nazionale.
Il cambiamento di opinioni sulla sua amministrazione arriva proprio mentre Trump deve affrontare dozzine di crimini e lunedì comparirà in un’aula di tribunale di New York per la selezione della giuria in uno dei suoi quattro processi penali” conclude la rilevazione.

15 aprile 2024

Presidenziali del 2008, con annotazioni quanto a Barack Obama

Si vota il 4 novembre e la percentuale dei partecipanti è pari al cinquantotto e due per cento degli aventi diritto.
Il Partito Democratico, a Denver, nomina Barack Obama, Senatore nero dell’Illinois (è la prima volta di un uomo di colore a tale livello).
Obama ha sconfitto dopo lunga e aspra contesa Hillary Rodham Clinton, già First Lady e Senatrice in termine di mandato del New York.
Il Partito Repubblicano, a Saint Paul, converge sul Senatore dell’Arizona ed eroe di guerra (Vietnam) John McCain, uscito vincitore dal confronto con un notevole numero di rivali tra i quali va segnalato l’ex Governatore del Massachusetts Mitt Romney.
Il democratico prevale nettamente (fra l’altro, catturando un numero eccezionale di elettori) e conquista trecentosessantacinque Elettori (iniziale maiuscola, come sapete) contro i centosettantatre dell’avversario.
Gli Stati sono ventotto più il Distretto di Columbia (più, per il vero, un delegato del Nebraska) a ventidue.

Annotazioni
Obama alla Casa Bianca
(il testo che segue è stato scritto d’impeto e pubblicato su Il Foglio il 5 novembre 2008, ventiquattro ore dopo la vittoria di Barack Obama)
“Non più di tre giorni fa, su queste medesime colonne, testualmente scrivevo:
‘Oggi, se la rimonta di John McCain in corso dovesse permettergli di vincere in Florida, Ohio e Pennsylvania – detentori in totale di sessantotto voti elettorali – potremmo scoprire che tutti quei giornalisti che da giorni bivaccano a Chicago per essere vicini al vincitore promesso hanno sbagliato indirizzo e meglio avrebbero fatto ad andare in Arizona.
Certo è che, mentre un successo del repubblicano, seppur clamoroso date le premesse, sarebbe alla fin fine per molti versi ‘normale’ (un altro Wasp a White House: che barba!), una vittoria del democratico sarebbe qualcosa di storicamente straordinario non tanto e non solo per il colore della sua pelle quanto appunto perché i bianchi, anglosassoni e protestanti (solo John Kennedy tra tutti gli eletti non era protestante) abdicherebbero e forse per sempre (asiatici e ispanici crescono di numero a vista d’occhio) al più alto segno del potere: lo scranno presidenziale’.
Potrei, quindi, ora, a bocce ferme, semplicemente cavarmela dicendo che avendo il 4 novembre John McCain perso proprio nei tre Stati sopra indicati era per lui impossibile conquistare lo scranno presidenziale.
È vero però che quanti mi hanno seguito leggendo le mie riflessioni in questi due lunghi anni di campagna per White House sanno che ritenevo l’America non ancora pronta a un tale, radicale cambiamento che temporalmente collocavo tra quattro/otto anni.
Quali, quindi, ad una prima analisi, le ragioni che hanno portato gli USA, oggi e non domani, a questo epocale risultato e, se mi è consentito, il sottoscritto a sbagliare il pronostico che ‘azzeccava’ dal 1952?
Per cominciare, addirittura dal 1928 era la prima volta che non partecipavano alla ‘corsa’ né un Presidente in cerca di un nuovo mandato né un Vice desideroso di subentrargli (nel 1952, Truman, apparentemente non in gara, in verità si era proposto all’inizio nelle Primarie salvo ritirarsi poco dopo).
Per questa ragione la campagna è stata tanto lunga (la più lunga di sempre!) e articolata in entrambi gli schieramenti dando il tempo ai candidati di illustrarsi al meglio e agli elettori di accettare più facilmente l’idea di una possibile, democraticissima ‘rivoluzione’.
Poi, Obama ha avuto l’accortezza, l’intelligenza di non proporsi mai come ‘il candidato nero o di colore’ ma semplicemente come un qualsiasi candidato.
Non ha in nessun caso sottolineato, come fece Jesse Jackson negli anni Ottanta del Novecento, la sua diversità, si è rivolto a tutti e ha in seguito scoperto (sconfiggendo Hillary Clinton nelle Primarie) che era davvero il momento giusto per in tal modo agire.
Poi ancora, a Nomination ottenuta e nel mentre i sondaggi nazionali davano comunque in vantaggio, sia pure a giorni alterni e di poco, il repubblicano, ecco scoppiare la latente e profonda crisi economica.
Come avevo in precedenza in più occasioni scritto, storicamente, proprio il deflagrare di una situazione economicamente difficile e pesante aveva già in passato favorito i democratici: così con Grover Cleveland nel 1884, con Franklin Delano Roosevelt, ovviamente nel 1932, e persino con Bill Clinton nel 1992.
Gli elettori, in tali frangenti, pensano che sia meglio cambiare cavallo addossando al partito in carica, giusto o meno che sia, gran parte della responsabilità.
Ha senza dubbio, inoltre, avuto un peso rilevante (vedremo quale allorquando saranno noti nello specifico i dati relativi alle affluenze) il fatto che McCain fosse un candidato repubblicano ‘di minoranza’ visto che il meccanismo in uso nelle Primarie nel GOP (‘winner take all’, in molti Stati) gli ha permesso di cogliere la Nomination essendo espressione non della maggioranza assoluta dei repubblicani ma solo di una consistente maggioranza relativa.
La successiva scelta di Sarah Palin alla ricerca della necessarissima ‘copertura’ a destra non ha convinto – certamente, lo scopriremo dai flussi elettorali – gli indispensabili, ai fini della vittoria e come si era visto quattro anni orsono, evangelici e conservatori.
E neppure ha avuto il da me ipotizzato forte impatto la questione concernente la futura nomina da parte dell’eletto di due giudici della Corte Suprema che sarà a breve chiamata a decidere in merito a questioni etiche di rilievo (aborto, matrimoni gay…).
Ed è a mio parere questa – una certa disattenzione nei confronti dei valori morali – la seconda ‘rivoluzione’ che può portare a concludere per una futura, magari lenta, ‘scristianizzazione’ USA.
Infine, possono avere avuto un impatto comunque significativo l’età dei due antagonisti (il giovane dinamico e il vecchio) e una certa stanchezza a proposito della continua sottolineatura da parte repubblicana dell’eroismo bellico di John McCain: non è forse ora, nel mentre ci si batte in Iraq e Afghanistan, di dimenticare almeno il Vietnam?
Tutto questo e molto altro ancora e Barack Obama sarà a White House a partire dal prossimo 20 gennaio 2009.
Speriamo davvero che, come ha detto lo sconfitto riconoscendone il successo, tutta la nazione sappia sostenerlo e che egli, come ha affermato nel discorso seguente alla vittoria, sia sul serio in grado di degnamente rappresentare vincitori e vinti.
Abbiamo assistito ancora una volta alla concretizzazione del ‘sogno americano’ e che Dio ci aiuti!”

La terza rivoluzione
(Il testo che segue è stato vergato con qualche maggiore riflessione il 14 novembre 2008, dieci giorni dopo l’elezione di Obama)
“L’elezione, il trascorso 4 novembre, del Senatore democratico Barack Obama alla Presidenza degli Stati Uniti va considerata a tutti gli effetti rivoluzionaria, e questo non tanto e non solo per il colore della pelle del vincitore quanto perché per la prima volta dal 1788/89, allorché venne prescelto George Washington, con la sola parziale eccezione di John Kennedy (cattolico), gli Wasp – white, anglosaxon and protestant = bianchi, anglosassoni e protestanti – hanno perso lo scranno presidenziale.
Che la cosa dovesse avvenire, anche se (come ho più volte scritto) non così presto, era nell’aria considerato che altre e differenti etnie (si pensi, oltre ai neri, agli asiatici in genere, e a cinesi e indiani in particolare, nonché agli ispanici più degli altri in continua espansione) andavano nel Paese aumentando di numero fino a ridurre pressappoco in minoranza i predetti wasp.
A ben guardare, è questa la ‘terza rivoluzione americana’ ove per prima si intenda, ovviamente, quella che negli anni Settanta/Ottanta del Settecento portò all’Indipendenza e per seconda quella, pacifica ed assai meno conosciuta, datata 1828 anno in cui la sconfitta del Presidente in carica John Quincy Adams, ultimo esponente della classe politica (una specie di aristocrazia terriera) che aveva ideato e ‘fatto’ gli Stati Uniti, e il conseguente arrivo del nuovo Capo dello Stato Andrew Jackson segnò la conquista del potere da parte della borghesia.
Fatto è, comunque, che a partire dal mezzogiorno del prossimo 20 gennaio, Obama sarà ufficialmente a capo della (sia pur economicamente, forse, declinante) più grande potenza mondiale.
Al di là delle attese fuori luogo e ridicole di quanti vedono il lui il nuovo Messia e sono certi che porterà la pace e il cambiamento (qualsiasi cosa questo vocabolo abusatissimo in politica possa significare), l’impegno al quale il neo Presidente si accinge è, naturalmente, gravosissimo ed è in primo luogo assolutamente certo che, vista la crisi in atto e le conseguenti difficoltà, non potrà dare seguito e attuazione alle infinite promesse fatte nel corso della campagna elettorale.
Guardando, poi, con occhio attento alla realtà storica, ai precedenti che in quanto Senatore e in quanto democratico riguardano Obama, c’è da preoccuparsi.
I quattro Presidenti che, prima di lui, tali sono diventati passando direttamente dalla Camera Alta a White House si sono rivelati, nei fatti, tra i peggiori capi di Stato USA.
Si tratta, nell’ordine, di Franklin Pierce, Benjamin Harrison, Warren Harding e John Kennedy, due dei quali (Harding per un infarto e Kennedy a seguito del famosissimo attentato di Dallas), fra l’altro, morti in carica.
I suoi predecessori democratici afferenti al ventesimo secolo, con la sola eccezione di Jimmy Carter, hanno tutti portato il Paese in guerra: Woodrow Wilson nella Prima Mondiale, Franklin Delano Roosevelt nella Seconda, Harry Truman in quella di Corea, Kennedy e Lyndon Johnson in quella del Vietnam, Bill Clinton in quella della ex Jugoslavia.
Che Dio assista Obama, gli USA (che, del resto, secondo Bismarck, ‘con i bambini, gli ubriachi e i matti sono vegliati da un particolare tipo di Provvidenza divina’) e noi tutti”.

15 aprile 2024

Gli sconfitti: J. Strom Thurmond

Allorché, il 3 gennaio del 2003, a seguito del parziale rinnovo dei suoi membri conseguente alle Mid Term Elections del precedente novembre, il Senato degli Stati Uniti si è riunito, dopo ben quarantotto anni, sullo scranno destinato al ‘Senatore anziano ‘ della Carolina del Sud non sedeva più il molto onorevole J. Strom Thurmond.
Eletto e confermato per otto volte e arrivato alla bella età di novantanove anni, Thurmond aveva infatti deciso di passare la mano rinunciando a proporre nuovamente la propria candidatura benché fosse ancora in possesso di tutte le sue capacità mentali.
Quasi mezzo secolo trascorso alla Camera Alta ne hanno fatto un vero recordman in materia, ma non è solo per questo che Thurmond va ricordato.
‘The Gentleman from South Carolina’ (così il cerimoniale vuole vengano appellati i Senatori USA, naturalmente indicando, di volta in volta, lo Stato di appartenenza), infatti, è stato altresì il candidato alla Presidenza battuto (eletto è invece Jimmy Carter) più a lungo sopravvissuto (morirà nei primi mesi del 2003) dopo la corsa verso la Casa Bianca.
Nel lontano 1948, riunito a Filadelfia in vista delle elezioni novembrine, il partito democratico decise di ripresentare il Presidente in carica Harry Truman.
Trenta delegati degli Stati del Sud (in seguito noti come ‘Dixiecrats’), insoddisfatti della scelta, abbandonarono la riunione e, in una improvvisata Convention tenutasi in Alabama, scelsero come loro portabandiera proprio J. Strom Thurmond, all’epoca Governatore del South Carolina.
Il nuovo partito – ‘Democratico per i diritti dei singoli Stati’ – sotto la guida del Nostro, si affermò in quattro Stati conquistando la bellezza di trentanove delegati al Collegio presidenziale.
Uno dei migliori risultati conseguiti da un candidato di un terzo partito alla White House nella storia da quando democratici e repubblicani si fronteggiano!
Ciò detto, il J Strom fu successivamente autore di una impresa elettorale straordinaria dato che nel 1954 vinse la corsa alla Camera Alta quale ‘write in candidate’, non inserito nella scheda e pertanto votabile solo scrivendo sulla stessa il nome, per di più con il sessantatre per cento dei voti.

15 aprile 2024

Nevada: storia elettorale in occasione delle presidenziali

1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (B. Hayes)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Populista (Weaver)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)

15 aprile 2024